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Vanishing Twin @ Out Here Festival – Avellino, 1 marzo 2024

Vanishing Twins @ Avellino - Foto Alessio Cuccaro 15

 

Forti dell’uscita del quarto album Afternoon X, lo scorso autunno, i Vanishing Twin giungono in Italia per due date, la seconda nell’ex Cinema Eliseo ad Avellino, per l’Out Here Festival (Oh!) organizzato dall’associazione culturale Fitz, che vedrà nei prossimi mesi altre importanti partecipazioni, tra cui Marta Del Grandi e Francesca Bono. La formazione, ridotta ufficialmente in trio, si presenta sul palco con l’aiuto del vecchio compagno di strada Arthur Sajas, che prende il posto di Phil MFU, e con la sua tuta bianca stile Arancia Meccanica sembra membro di diritto di una band dal gusto retrò e fantascientifico a un tempo. Con la Gibson “Diavoletto” accompagna con delicatezza le trame ipnotiche, aggiungendo un tocco di minimale groove funky al wah-wah, solo dove serve, mentre contribuisce significativamente al sound sognante dei Vanishing Twin con interventi piumati al flauto traverso, degni del Peter Gabriel dei tempi d’oro. All’altro capo del palco la figura compassata di Susumu Mukai, che regge con flemma pulsante e sinuosa corposità linee di basso ostinate e ariose, organismi di ombre dense, lanciandosi talvolta in esplorazioni del rumore, come i suoi sodali del resto, giocherellando concentrato con le manopole di un pedale scollegato dallo strumento. Al centro della scena Cathy Lucas conduce il gioco, accompagnandosi con un piccolo sintetizzatore Korg e un multi-effetto Roland dal quale trae una bizzarra serie di suoni e trovate, a partire dalla rituale Melty abbinata in apertura del concerto al ritmo dinamico di Afternoon X, come nel nuovo album. La sua figura esile quasi svanirebbe dietro lo strumento, come uno spettro tra le luci basse della sala, se non fosse per il basco rosso fuoco che calamita lo sguardo anche quando non è concentrata a cantare, con quella voce eterea e baritonale, profonda come Nico, ipnotica come Laetitia Sadier, sofisticata come Cate Le Bon, ardita e astratta, dolce e leggera, che staresti ad ascoltarla per ore. Con sicurezza consumata e gentilezza amabile segnala un problema con la tastiera dopo i primi pezzi e scherza col pubblico per la quota rialzata del palco dell’ex cinema, it’s so strange you are so far away, affacciandosi prudente verso la buca d’orchestra, qualche metro più in basso. Poi, ritraendosi prudente e calma, pensa alla leggera melodia di The conservation of energy, dall’esordio del 2016, e danza lentamente sulle trame orientali del rito misterico di Lotus Eater, esplorando in Marbles le possibilità della voce sulla scia di Demetrio Stratos. Nelle retrovie, ma non meno importante, Valentina Magaletti è il motore della band, e forse la principale artefice del sound, che modula a proprio piacimento, anche nei momenti di stralunata sperimentazione come The Organism, portando il tempo con battiti frequenti, dilatati da echi e riverberi tonanti, pestando rude le pelli della sua Ludwig, frullando con foga e trasporto piatti e tamburi, anche smontando pezzi del charleston per ottenere particolari effetti, disegnando mitragliate urticanti sui tom. Schiaccia l’acceleratore a tavoletta negli stacchi percussivi di Floating Heart, che prende una deriva acidula con la più improbabile delle trombette in cui soffia a più non posso Cathy, prima della demolizione catastrofica che va in scena nel finale. Valentina costruisce pattern debordanti contro gli organi ansiogeni di The down below; si alza in piedi per domare uno xilofono con maestria da jazzista, fluttuando con le bacchette sulle barrette tracciando segni visionari. I tempi regolamentari del concerto si chiudono con l’arpeggio al rallentatore di Subito e la sua dolente declamatoria sacerdotale che scava profonda come un mantra “what are we waiting / what are we waiting for?“. E infatti non c’è da aspettare altro quando nei bis arriva la fresca leggerezza di Magician’s success col suo solare appeal radiofonico a diffondere buonumore in tutta la sala col potere della fantasia, imagine that… Poi Cathy imbraccia la chitarra e prende accordi con Susumu per la liturgia finale di You are not an island, che scorre lenta tra vocalizzi purissimi, flauti lucidi come lacrime e gocce di ghiaccio che riverberano a scandire l’ultima preghiera, l’ultimo messaggio d’amore, we are side by, side by side. Grandissima band, grandissima, saremo sempre fianco a fianco.

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