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Daniele Sepe, Conosci Victor Jara? live @ Villa Pignatelli, Napoli

Daniele Sepe @Villa Pignatelli - Foto Alessio Cuccaro - 01

Forse dopo tre mesi dall’evento bisognerebbe passare a un altro live, ma la nostra voglia di conoscere e raccontare impone di onorare sempre le cose belle, a prescindere dalla scaletta e dai trend del giorno. Corre l’obbligo, dunque, di ricordare che il 3 marzo nel portico dorico di Villa Pignatelli a Napoli, nell’ambito della rassegna Pignatelli in Jazz 2024, che ha visto la partecipazione di musicisti come Gabriele Mirabassi e Nicky Nicolai, abbiamo assistito allo spettacolo Conosci Victor Jara?, che prende nome dall’album (pubblicato nel 2000)  col quale Daniele Sepe omaggiava lo scomparso cantautore cileno, ucciso dai ceffi del golpista Pinochet nel 1973. È di straordinario rilievo che una figura come Jara venga celebrata in una delle più eleganti dimore neoclassiche di Napoli, l’unica della Riviera a permettersi il lusso di avere un ampio giardino sia sulla fronte che sul retro, un appartamento storico, oggi museo, che porta il nome completo di Museo Diego Aragona Pignatelli Cortés. Proprio lui, Cortés the killer, direbbe Neil Young, il conquistador che prese con la forza il territorio dell’attuale Messico, facendo strage di Maya e Aztechi, e i cui discendenti si imparentarono con la famiglia napoletana. Quale luogo migliore per cantare dell’imperialismo statunitense che ha preso il posto dei colonizzatori ispanici, favorendo le peggiori dittature militari che hanno scritto la sanguinosa storia del continente sudamericano. Naturalmente, Sepe indirizza con buona mira le sue invettive “siamo cresciuti con la cultura americana”, dice il sassofonista, “amiamo Hendrix, John Coltrane e tutta una schiera di grandi artisti che hanno influenzato la musica del ‘900. Siamo invece contro la politica del governo americano, che ha bombardato nazioni in tutto il mondo”. E allora le trame sonore del Sud, dalla chitarra nuova di Jara a quella antica di Atahualpa Yupanqui, si incontrano con il jazz del Nord, col gusto per l’improvvisazione, il flusso spontaneo di correnti tumultuose che si infervorano con grida di dolore e di rabbia, ma anche con la gioia della lotta, dello stare insieme. La sala è infatti gremita e i musicisti suonano in mezzo alla folla come in un happening contro la guerra nel Viet fottuto Nam, con Sepe che si lascia andare al suo solito parlare istrionico, tra una tappa e l’altra di questo ripercorrere il repertorio dell’album per Jara come dell’ultimo Poema 15, che pure rivisitava quei luoghi del suo personale immaginario musicale. Lo accompagna una band eccellente, tra cui spicca Emilia Zamuner nel ruolo di primadonna col suo timbro denso e potente, che sa essere delicato e lieve, in grado di trascinare il collettivo dettando tempi e timbri delle esecuzioni, anche più di Sepe, che si defila in più di una occasione ad osservare i suoi orchestrali con silenziosa malinconia che a tratti intenerisce. Tra essi c’è un ritrovato Piero De Asmundis, elegante e sintetico sui tasti neri di un pianoforte a coda, specie nel denso lirismo di Te recuerdo Amanda; il sornione e dinamico Davide Costagliola col suo basso impeccabile e fluido, in sintonia con la batteria di Massimo Del Pezzo, che fa un gran lavoro ritmico, malgrado l’acustica del salone non sia delle migliori per strumenti a percussione. E poi ci sono i ragazzi del Coro degli studenti del Conservatorio Martucci di Salerno, guidati nella suggestiva apertura a cappella da Zamuner e chiamati più volte a intonare melodie con l’ensemble. Procissao di Gilberto Gil diventa un momento di partecipazione divertita di tutto il pubblico, invitato da Zamuner a intonare il coro “meu divino são Jose“, dopo che Sepe ha precisato il ruolo consolatorio della religione, analizzando la celebre e fraintesa frase di Marx, “la religione è l’oppio dei popoli”, cioè il rifugio dei poveri e degli sfruttati, chiudendo caustico “ma qua stiamo a Chiaia, che avete da lamentarvi?“. Fin da quando a cantare il brano era Auli Kocco, Daniele ha sempre offerto una versione più briosa e accattivante del beat tropicale dell’originale di Gil, e anche qui, con le differenti qualità vocali di Zamuner, riesce a tenere viva la tensione di una celebrazione festante e contagiosa, facendo propria l’energia carioca. Naturalmente il gran finale è affidato al canto degli schiavi liberatisi dalle catene Peixinhos do mar, solare invito a resistere e lottare sempre e comunque.

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