Per i dieci anni de Il mondo è come te lo metti in testa Giovanni Truppi porta in scena un concerto scarno, diretto ed esplosivo come una scheggia impazzita che si impenna in traiettorie imprevedibili e precipita in discese vertiginose, disegnando le linee contorte di un solido repertorio, di ieri e di oggi, riletto e talvolta stravolto, irriconoscibile, trasfigurato. Imbraccia quasi sempre una chitarra elettrica dal suono pulito e carico di riverbero che suona con un approccio punk, ma è solo apparenza perché Giovanni si muove con tecnica invidiabile mostrando un solido e dinamico tapping col quale intreccia arpeggi fulminei sui quali riesce anche a cantare in controtempo, come nell’autentico scioglilingua de I cinesi. Il tempo. Il secondo elemento fondante di questo spettacolo in duo, tenuto con metronomica precisione dal sodale di vecchia data Marco Buccelli, perfetto compagno di follie, malgrado l’aspetto che ricorda quell’atteggiamento di intransigenza del potere incarnato da Volonté nelle sequenze surreali di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Concentrato e attento a ogni cambio di passo, colpisce pelli e piatti con movimenti secchi come un orchestrale che esegue una partitura di musica concreta. Con accenti appena diversi costruisce pattern minimali che sembrano agli antipodi, salvo straripare all’improvviso assecondando l’estro geniale di Truppi. Insieme dissacrano e frammentano il repertorio dell’ultimo album, ripercorrono le strade degli esordi, dapprima come una versione eccentrica dei White Stripes, senza assoli blues né rozzi tamburi, tutta tesa a spazzare le prime file con irruenza energica, come nel saliscendi speculare di Nessuno, coi suoi esilaranti quanto drammatici doppi sensi, “il mio ragazzo si chiama Nessuno, nessuno è il mio ragazzo“, oppure nello scanzonato racconto di un assurdo sogno erotico con un partner insolito che era molto meglio di te, era grande era forte, era Superman. Del resto è il decennale di una bislacca consapevolezza: “io mi chiamo Giovanni / e il mio nome è un plurale / ma nonostante questo indizio che mi hanno dato mamma e papà quando sono nato / ci ho messo più di vent’anni a realizzare / che siamo tantissimi qui dentro“. Una sarabanda di bizzarri opposti in collisione che cresce con progressione circense e travolge i presenti con foga rock’n’roll, li costringe a urlare divertiti. E Truppi è forse l’unico cantautore ad aver arrangiato una cover del sommo Gianfranco Marziano, accolta da un’ovazione, una versione del nichilismo anarchico di Giovinastro appena ripulita, in cui sognare di sovvertire tutti i valori del perbenismo capitalista, diventare ricchi solo per la soddisfazione di “scapezzare” la borsa di Milano e mandare la grande finanza a picco con tutto quello che rappresenta. Aspirazione rivoluzionaria che si lega al monologo di impegno civico di Infinite possibilità, in cui come parlando a un gruppo di amici fidati li sprona a fare qualcosa: “o ci dedichiamo attivamente a costruire delle alternative a questo sistema politico / oppure almeno ci iscriviamo tutti al PD / La struttura c’è, le sedi pure, già affittate, piano piano ce lo prendiamo da mano a questi e cerchiamo di capire“. E cercando di capire sé stesso e le persone siede al suo strano pianoforte modificato e trova addirittura l’amore, in un anelito di unione totale, con Tuo padre, mia madre, Lucia, perché “amarsi è credere che quello che sarò sarà con te“, e poi si domanda con voce rotta se due che si abbracciano strettissimi ce la fanno a Scomparire. Euforico e commovente, folle e melodioso, un concerto unico.
Fonte foto: giovannitruppi.com