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Mondo e Antimondo – Umberto Maria Giardini

UMG albumFuoco e ghiaccio. Coperte calde e venti gelidi. Mondo e antimondo. Dicembre inizia all’insegna della pirotecnia che gli artisti con tutte le lettere maiuscole sanno generare. Con il buffet aperto dal finger food di pregevole fattura rappresentato dall’ancora fumante EP Domus Meus, dato alle stampe ad inizio ottobre e che sussurrava benigno che il meglio doveva ancora arrivare. Ed infatti. Dicembre, mese atavicamente portatore di strenne, rimette la chiesa al centro del paese, con Umberto Maria Giardini che pareggia la produzione del precedente progetto Moltheni con l’uscita di Mondo e Antimondo, per la Tempesta dischi, fedele label ormai dal 2005. Un lavoro che scandaglia ogni parete interna dell’artista, aprendo, come sempre generosamente, il costato a tirare fuori sensi di inadeguatezze urticanti, a scandire a voce bassa quanto talvolta sia necessaria la partenza, assassina la fuga, suicida la permanenza. Umberto Maria Giardini permane splendidamente eretico, dal greco “colui che sceglie” da che parte stare e restare, con una coerenza commovente come quella del matematico Grigorij Perel’man, a mettere in fuga come Erinni furiose qualsiasi malsana idea direzionata verso la omologazione, preferendo continuare a disegnare i propri sketches ammantati di inconfondibile poesia su carta riciclata ma pura, come “neve sulla cima del monte”. A dire che puoi andare in America con il Concorde ma è solo un mezzo. E la sostanza è che l’America l’ha scoperta Colombo partendo con tre navi. La miccia imbevuta di liquido infiammabile è il primo singolo estratto e che apre il disco dal titolo Re. Scettro e mantello vengono indossati su una tenuta bucolica da lavoro sfiancante, con un suono ingrugnito e combattente, da Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ad accentare la ripetizione mantrica delle attività semplici e sudate, in un’atmosfera sospesa e decadente da fine impero. Con i barbari annunciati che già bussano alla porta, con molti che hanno già occupato gli scranni polverosi con le loro sembianze lombrosiane viste tra i folli di Capitol Hill, tra il nero delle aule del nostro nuovo che arretra o tra chi dal 1948 punisce ininterrottamente una striscia che continua ad insegnare al mondo come si resiste. Ci si invola poi ben sopra il livello del mare a cercare di beneficiare dei Miracoli ad alta quota, “quelli che fa l’amore”, indecifrabili come un cat calling subìto appena svegli dopo un weekend di devastazione, inattesi come la vittoria sul ring tarantiniano di Butch Coolidge e di cui rendere conto al benevolo Marsellus Wallace. Tra rimandi ai dorati anni del malto, territorio di controtempi tra rimpianti e riuscite, con il sentito consegnato ad altre nuvole viaggianti cariche di acqua e calcare, pronte a tirar giù frustate. Il tambureggiare spazioso che apre Andromeda annuncia propositi di difesa dall’incontrollabile luddismo dei sentimenti, con implorazione al rallentamento, alla distruzione degli automatismi, sorpresi dalla tempesta senza vestiti, trovando riparo dal vento che erode le rupi come falesie, che fischia quasi ghignando, disegnando forme ingannevoli come ramoscelli fragili messi in terra a camuffare un fosso, nell’attesa che Perseo rimetta in cammino la vita, fino ad allora “tartaruga e cerbottana”. Il piano iniziale de La notte lancia spifferi di una Liverpool di fine anni sessanta, con pennellate di lisergica psichedelia infrante a metà da riverberi squassanti come la mia tosse di oggi, come massi caduti su pavimenti in ceramica alle cinque del mattino, a dimostrare come la sua cifra sonora sappia essere ferro o piuma a seconda dei casi, avere l’aggressività della finanza predatoria o la delicatezza dell’agave, capace di vivere trent’anni producendo un solo fiore poco prima della morte. Una ballad che sorride ad un ritorno alle origini, abbandonando le città confuse in autostop, porgendosi l’ombrello a vicenda, sancendo un patto di alleanza e definendo con chiarezza il perimetro di gioco. Ora, sarà che questo connubio, tra due artisti che ritengo senza timore di smentita ai vertici dell’Olimpo dell’Italico panorama gattopardesco, arriva inatteso come la risata di un tabacchino che percula la richiesta di un ex fumatore di resuscitare un pacchetto di sigarette da dieci oramai illegali, ma ascoltare Cristiano Godano che compare improvviso ad aprire i rubinetti della botte del rimpianto in questa magnifica Le tue mani, mette in comunicazione staffa, incudine e martello con i ventricoli, dipingendo quasi in dormiveglia una bella giornata che ammicca a La Capria, con i ricordi ad imbellettare il cielo dei tempi andati “come una pioggia di dardi luminosi”. Per poi aprire gli scuri sulla mattina di oggi che non avremmo mai voluto così rassegnata, di cui ci saremmo limitati a leggere il menù senza varcarne la soglia. Sempre più convinti che “a volte le cose vanno in una direzione opposta a quella che pensavi” e che il tempo sia un luogo capace di rendere succedanei vittime e colpevoli, con un fare smielatamente curialesco ed equidistante a piazzare gli stessi fiori su tombe così differenti nel camposanto delle direzioni diverse, con il sottofondo del fruscio della sabbia che svuota la pancia alta della clessidra. Versus minorenne esplode con un incipit di batteria e poi accarezza con un falsetto centrale, in un requiem generazionale, a parlare allo specchio che riflette i noi di tanti anni fa, spavaldi e privi di umiltà, quando la via più breve tra due punti, per dirla con Flaiano, era l’arabesco. Un sedile libero sulla Delorean, mi accomodo senza cinture allacciate ed è 2004, quasi 2005 sulla via Emilia. A tagliare in mille pezzi un pomeriggio divenuto scuro troppo in fretta, scandendo un incolpevole anticipo sulla fine di una scommessa a cui credemmo in pochi e suggerendo un evidente ritardo sulla vita che iniziava a rotolare verso l’alto con fatica. MP3 in cuffia sulla corriera inseguita non ricordo quante volte, Moltheni cantava di Fiducia nel nulla migliore, a suturare i miei strappi, a disinfettare le lacerazioni. Perché questo Cechov ci insegna a cercare negli scrittori; non devono dire che non bisogna rubare i cavalli ma descrivere il ladro di cavalli. Qui Umberto Maria Giardini va oltre, fino a farti sentire perché si ruba, aprendo il sipario broccato della wunderkammer della sua anima pulita e profonda come i solchi lasciati da quest’epoca matrigna dalle unghie affilate. Nei giardini tuoi gioca di sponda con i Radiohead e centra un filotto reale che, dopo gradevoli venature grunge, declina la sua traiettoria su echi vicini agli Smiths. Lo stupore candido del “nemmeno piove” quando si vedevano all’orizzonte gli uragani. Il timore madido che “da domani non mi ami più “, con l’indicativo a sentenziare un evento certo, con il giorno dopo che diviene fine e non principio, come generalmente stampato nell’immaginario collettivo. Ma adesso che ancora tempo ce n’è, calici in alto e beviamolo fino all’ultimo sorso, mischiandolo alle lacrime se i sorrisi sono divenuti afoni oramai, consapevoli che la felicità è quasi sempre qualcuno e mai qualcosa. Muro contro muro è l’epitaffio di un amore. È una sequenza di chiodi a chiudere una bara, apre dighe che è impossibile richiudere. È acqua in piena che travolge e che io lascio imbarcare facendo venire a galla flashbacks da elettroshock. Le mie spalle incontrollate a scivolare lungo il muro ghiacciato, gli schiaffi presi per tenermi sveglio sulla vita da chi invece sarebbe rimasto lì ad allacciarmi le scarpe. Mentre lo scotch trasparente chiudeva gli scatoli pieni di orpelli a rubare pace e che avrei fatto meglio a dare alle fiamme appena richiusa la porta. Tra “letti di seconda mano” schivati ed “architetture gotiche” dei propri anni, tra l’ autolesionismo delle domande inutili come indagare il senso dell’essersi mossi quando il muro è a pochi millimetri dalle palpebre, resi inoffensivi per gli altri, come un Cyrano dalla giacca bagnata da troppo tempo, e nocivi solo per se stessi. La coda del disco prende avvio con una sbiadita confessione che apre Figlia del corteo, con impulsi acustici a cullare una ammissione di colpe, nella lucida consapevolezza che tutte le cose nascono per un motivo ma che quei motivi non sono eterni. Diventando carne da cannone imbottita di inadeguatezza a rendere irrespirabile l’atmosfera, pronti a farsi da parte senza finire in una guerra in cui la prima cosa a scomparire è la verità e che riempie i tavoli dell’obitorio surriscaldati dal rancore inespresso. L’ultima cartina di tornasole infilata sotto lo sterno è la title track, Mondo e Antimondo, che chiude il disco. Un giudizio universale che trasporta in una sala operatoria dove si interviene a cuore aperto, con la rabbia degli underdog ripiegati sui propri verbi difettivi, timidi nel concionare di perpendicolarità tra disciplina e resa incondizionata al marcio, come i cartelli “attenti ai borseggiatori” gridati in quattro lingue. La seconda parte indossa un mantello da crisalide noir, dopo la trasformazione in una delle ballad più struggenti che io riesca a ricordare. Con riverberi ad accompagnare la lama in un seppuku dell’amore che fu, una volta resasi chiara ed imbattibile la differenza tra un punto e una virgola. È la chiusura devastante, e che fa sanguinare le mani nel riavviarla in loop, il punto esclamativo su quello che è l’ennesimo capolavoro di Umberto Maria Giardini, in cui l’artista di Sant’Elpidio a Mare, con la naturalezza dei più grandi, appronta un’impeccabile prova di eclettismo in cui le facce del diamante sono le molteplici fioriture della sua storia artistica, dosate con incredibile sapienza. Non nascondendo una sfiducia palpabile nella odierna direzione del mercato discografico, da intendersi come un mostro trasfigurato con la testa che resta attaccata al collo solo dai tessuti molli, come un Oloferne a cui Giuditta ha scordato di sferrare il colpo finale. “Questo vi dovevo”, ecco cosa sembra dirci Umberto Maria Giardini, mentre con asettica ed incontestabile superiorità conquistata con quasi trent’anni di attività, si tiene lontano, lontanissimo dagli ego cresciuti priapescamente della pletora di artistucoli della supercazzola acchiappalike. Che tra le lapidi prematuramente (o tardivamente dipende dai punti di vista) erette nei cimiteri delle meteore musicali c’è ancora tanto posto e, per quanti fiori ci siano, usando le parole salate di Andrea G Pinketts, non è mai primavera. Se, come dice il poeta punk Alessio Sollo, la storia la scrivono i vincitori e la poesia i vinti, diviene quasi atto di eroica resistenza preferire i versi ai saggi, auspicare il sorgere come funghi di nuove Democrazie Corinthiane guidate da emuli del dottor Socrates, a sopraffare i sistemi lobbistici del malaffare che drogano il mercato con un click. Si sa, la rivoluzione non è un pranzo di gala, lo sono ancor meno quelle culturali e dischi come Mondo e Antimondo, nella loro onestà intellettuale, nella loro clinica capacità di curare e benedire, valgono bene come una presa della Bastiglia. Sono un sacco a pelo caldo quando ti è rimasto poco per cui sorridere, mentre il tuo vicino si lamenta del brodo grasso. Sono un dono commovente ed impegnativo come regalare un cognome per farlo camminare nel mondo. Perché la bellezza va coltivata, ma necessita di artisti dalle mani grandi che sappiano piantarla nella terra. E di gemme luccicanti come questa ce n’era un disperato bisogno.

Credits

Label: La Tempesta Dischi – 2023

Tracklist:

  1. Re
  2. Miracoli ad alta quota
  3. Andromeda
  4. La notte
  5. Le tue mani (feat. c. godano)
  6. Versus minorenne
  7. Nei giardini tuoi
  8. Muro contro muro
  9. Figlia del corteo
  10. Mondo e antimondo


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