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La musica è finita – Motta

MottaUn disco che esce lo stesso giorno del primo live del nuovo tour, a ribadire l’inscindibile legame tra corde che vibrano ed assi che traballano. Il quarto lavoro in studio di Francesco Motta, a due anni dal precedente Semplice, ha visto la luce il ventisette ottobre, assistito dalla produzione di Tommaso Colliva per l’etichetta Sugar e presenta un titolo emblematico su cui ragionare. La musica è finita è un lavoro a due velocità che segna una ripartenza dopo un ultimo periodo di silenzio sofferto, detestato, ma propedeutico. Se dai poeti abbiamo imparato che dai diamanti non nasce nulla se non l’estemporaneo stupore, Motta ci dice che dal silenzio talvolta nascono le canzoni, e molto spesso questa genesi riguarda proprio quelle più fragorose, per impatto emotivo, contenuto e capacità di scavare tra le nostre archeologie interiori con l’intento di ricostruire i paesaggi che furono o di edificare le città ideali in cui si vorrebbe abitare. Due targhe Tenco a scintillare in bacheca sono una buona benzina per non tenere fermi i motori, per convincersi una volta di più che le sdrucite camicie di forza a cui ci rassegniamo per comodità vanno stracciate a mani nude ed incendiate subito dopo per annichilirne il ricordo. Anticipato da ben tre singoli da maggio scorso ad oggi, questo lavoro tracima di una rotonda fame dell’altro, con una lente ben mirata al di fuori di se stesso e mossa da una curiosità robusta che si concreta nella colorata girandola di collaborazioni, nella voce e nei suoni, che impreziosiscono il disco, guadagnandosi diritto di cittadinanza nel ventaglio delle migliori produzioni di questo 2023 giunto agli sgoccioli. Anime perse, primo singolo pubblicato, apre il disco con un incanto da carillon che punta dritto allo stomaco del pezzo, a raccontare di un amore tossico, osservato dal balcone, con lo sguardo puntato verso gli inferi di una relazione in stile Harry ti presento Sally ma con un finale nero ed aspro, con le cose che restano “a parte” senza incontrarsi mai più. Il pattern piano-elettronica-archi finali accompagna in un labirinto di “quasi” che non si compiono mai, avvolgendo i due duellanti in un girovagare irrisolto, come rimbalzare in eterno sul trampolino senza tuffarsi mai solo perché l’acqua potrebbe essere fredda. Percorsi paralleli in deficit di ossitocina, con l’incomunicabilità a calcificare la paura della vita ed a sentenziare l’incapacità di amare stando dentro ai recinti. Il testo di Per non pensarci più, partorito in comunione con Danno dei Colle der Fomento ed Emma Nolde, disegna la linea più punk del disco, con sonorità che paiono un velato, neanche troppo, rimando agli esordi con i Criminal Jokers. Scritta durante la pandemia, lascia affiorare una lampante sensazione di soffocamento, determinata dall’imposizione esogena dell’immobilismo, che esplode in un flusso di coscienza teso, severo, prodotto come voce di un ventriloquo di se stesso, con lo stomaco a fare da cassa armonica e ad ammortizzare le coltellate inferte dalla “coerenza che mi ha ucciso”. Amicizie che srotolano tappeti per camminarci su assieme ed indossano le vesti della collaborazione come quella tra Willy Peyote e Motta che, a quattro mani e due voci, cantano di resistenze dal retrogusto cinematografico, convinti che non sia ancora arrivato il momento di scrivere la parola fine. Seppure avevi calzato le scarpette per scattare e non per sostenere la fatica di una maratona, in una corsa rivelatasi ad eliminazione, col fiato costantemente spezzato e sottile come la differenza tra essere utili ed essere importanti. Finendo con l’incenerire vite da comparse secondarie che trovano parziale riscatto nel cercare il proprio nome, in font minuscolo, tra i Titoli di coda, dopo aver guardato vivere gli altri aspettando il proprio turno invano ed aver pulito le briciole da un tavolo a cui non si è trovato posto. Altri sgabelli accomodati, spalla a spalla, per Alice cantata con Giovanni Truppi a descrivere nel finale una visione di interno di vita familiare. Ritroviamo Alice Motta, dopo averne ascoltato la voce in Qualcosa di normale presente su Semplice del 2021, qui in forma ritratto con le pennellate discrete di Truppi e quelle commosse di suo fratello Francesco che ne disegnano i contorni ad occhi chiusi ed i pensieri usati come plantari per viaggiare comodi e liberi. La bisettrice del disco è un Intervallo strumentale a separare i due gruppi sanguigni dell’album, a dividere i cerchi disegnati con il compasso da quelli tirati a mano libera, apprezzando al contempo la precisione dei primi e le imperfezioni ricercate dei secondi. Ed infatti La musica è finita trascina a colpi di megafono, in una marcia elettrificata con un testo a cui partecipa, e si sente, Francesco Bianconi e che pare perfetto per far ballare il Joker di Joaquin Phoenix intento a scendere iconicamente le sue scale, mentre “Gesù è senza via d’uscita, cammina solo sopra il mare“. L’arpeggio finale è un fare pace, con tanto di anello sponsale, con la propria compagna fedele la rabbia, e che protegge come una tuta da astronauta in assenza di gravità. Scusa è una perla keshi, senza nucleo ma dalla forma che rapisce, e che vede seduto al piano Jeremiah Fraites, a guidare una melodia gentile, che solletica ed accarezza, ad iniziare un viaggio congiunto per scoprire il cielo dove va a finire. A guerreggiare contro tutta la paura del mondo di perdersi senza poter rimediare, di guardarsi di spalle, a cuore nudo, mentre dall’alto osserviamo con l’occhio pulito ed umido la vita che ancheggia con tutte le sue speranze. Cercando disperatamente di usare mani tese, mani aperte, mani strette, mani giunte contro la paura che il mondo sa metterti addosso quando hai tolto l’armatura anche solo per un attimo. Più che di featuring, più corretto è parlare di duetto per la successiva Maledetta voglia di felicità con Ginevra Lubrano, voce sorprendente che si intreccia in maniera perfetta con quella di Motta, a parlarci di inadeguatezze e ricerche spasmodiche di congiunzione, non badando alle ginocchia abrase per le cadute necessarie a non perdersi mai più, combattendo contro il sanguinoso ossimoro della perenne incostanza dei sentimenti. Se non avessi avuto te lancia sassate su figure sbiadite attaccate al muro, di cui si è scordato pure il suono della voce, ma che continuano a guardarti fisso in mezzo agli occhi, per ricordarti le buche scavate nel passato e non ancora riempite, con buona pace di John Mainard Keynes. E allora terapie occupazionali per riempire i vuoti con interessi ornamentali, rimbalzando dai mercati di Milano al vino bianco, sguainando l’andare consapevole come unico antidoto alla deriva casuale delle pulsazioni. Roberta Sammarelli dei Verdena inforca il basso in Quello che ancora non c’è, delicatissima dichiarazione di intenti e di vicinanza, a mettere mattoni per costruire nonostante la tempesta ed il vento che non scordano mai di farsi vivi a spaccare la terra, nonostante non arrivi quello che si desidera e per il quale si lotta a mani intrecciate, nonostante la sindrome da foglio bianco che soffia sulle tempie senza dare tregua. Che prima o poi arriva quel graffio di inchiostro che rimette ogni riga al suo posto, anche quando si sta come in purgatorio con un piede sulla botola per l’inferno. La bonus track Per sempre chiude il disco con una godibile ballata accelerata dalla sfuggevolezza dei momenti felici, da catturare e blindare negli abbracci perpetui, per scampare ai giri di pista con i sidecar vuoti. Con la certezza acquisita che nel camminare si respiri meglio con un paio di narici in più al fianco e che si dorma meglio se si riesce a fare lo stesso sogno, sperando ad ogni alba di svegliarsi ancora con le gambe attorcigliate. Dopo La fine dei vent’anni Motta annuncia anche la fine della musica. Ma qui aveva prudentemente già raccolto, dai bulbi precedentemente interrati, fiori in rigogliosa ricrescita, dai colori meno cupi di quelli dipinti nell’incertezza della conclusione di una epoca anagrafica. Qui la musica è tutt’altro che terminata, non si ferma, non aspetta e riprende strada sgommando, con giri larghi e curve a gomito, a ricordare il monito terrorista di Ferretti e soci per il quale “la retta è per chi ha fretta“. E allora via gli orologi dalle pareti e dai polsi, tutti a ballare attorno a questo falò alimentato dall’alcool delle ripartenze. Perché qui Motta decide di darsi tempo, di esplorare nuovi territori ed apparentamenti, plasmando, con la produzione di Tommaso Colliva, un tessuto connettivo ottimale tra le tracce che compongono il reticolato di questo disco, capace di fotografare gli esterni con una luce più matura dei primi lavori, nonostante la felicità del tempo che passa, nonostante con il tempo si diventi meno bravi ad attendere. Questione di primi argenti tra i capelli, questione di troppa argilla nelle vene ad alimentare le inquietudini. Ma avendo nel frattempo imparato ad usare meno flash ed a godere saggiamente delle panoramiche en plein air.

 

Credits

Label: Sugar – 2023

Line-up: Francesco Motta (Voce – Chitarra Elettrica – Chitarra Acustica – Basso – Piano – Percussioni – Bouzouki) – Maria Chiara Arigiro’ ( Synth – Elettronica) – Carmine Iuvone (Violoncello) – Mauro Refosco (Percussioni) – Giorgio Maria Condemi ( Chitarra Elettrica) – Nick Roseboro (Tromba) – Jeremiah Fraites (Pianoforte) – Valentina Del Re (Archi) – Cesare Petulicchio (Batteria) – Coco Francavilla (Synth – Drum Machine) – Roberta Sammarelli (Basso) – Tommaso Colliva (Programmazioni – Drum Machine) – Willy Peyote (Voce) – Giovanni Truppi (Voce) – Ginevra Lubrano (Voce)

Tracklist:

  1. Anime Perse
  2. Per Non Pensarci Piu’
  3. Titoli Di Coda (con Willy Peyote)
  4. Alice (con Giovanni Truppi)
  5. Intervallo
  6. La Musica È Finita
  7. Scusa (con Jeremiah Fraites)
  8. Maledetta Voglia Di Felicita’ (con Ginevra Lubrano)
  9. Se Non Avessi Avuto Te
  10. Quello Che Ancora Non C’è
  11. Per Sempre


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