Fa freddo… le strade sono deserte e sporche eppure l’aria gelida di questa notte d’inizio dicembre sembra bloccare le luci lontane congelandole come spettri vigili carichi d’attesa e fascino.
Non si ha voglia di uscire in notti così… ti tirano fuori gli amici, una soprattutto, speciale e convincente, e la voglia di vederli… così arrivi magari poco convinta in una strada che curva buia ad uncino, familiare come un ricordo e quotidiana come la tua casa.
Pochi attimi fuori, tra i sorrisi sorpresi dal freddo, degli amici e poi dentro.
Il calore da cui si viene investiti potrebbe sembrare così evidente solo se paragonato al gelo intenso della strada, ma è molto di più, è il sorriso rassicurante di chi, da Ciro ai suoi collaboratori, vecchi e nuovi, nel tirare su il Mamamu, ha saputo farne, negli anni, molto più di un ottimo music-club, fra i migliori di Napoli. Si tratta di una famiglia accogliente dove ascoltare buona musica e soprattutto condividerla in un confronto stimolante di discorsi allegri e vivi con amici e sconosciuti che un attimo dopo non sono più tali.
Il Mamamu è casa.
Saliamo, il primo live di stasera è nel piccolo accogliente ambientino ristrutturato in soppalco.
Stanley Brinks, nuova identità di Andrè Herman Dune, viso rassicurante e tranquillo, è qui in formazione con Clemance Freschard, ventiduenne cantautrice francese con cui ha iniziato negli ultimi anni una proficua collaborazione.
Ed è proprio la voce delicata e fresca di Clemance a dare inizio al concerto, Andrè l’accompagna.
Dopo alcuni piacevolissimi brani, la giovane cantautrice ci dice qualcosa in inglese col medesimo sorriso dolce con cui chiude tutti i suoi pezzi, convinti, i due, di essere perfettamente compresi, vanno avanti così tutta la sera, ma il loro è un inglese stretto, soprattutto quello di Andrè ed allora diverte guardarsi intorno e trovare sui visi i sorrisi titubanti ed incerti di molti presenti, che probabilmente si interrogano sull’averli o meno capiti… stavolta qualcosa colgo, ora suona Andrè continua a cantare da solo.
La voce di Stanley Brinks colpisce subito, è particolare, più che bella è suggestiva, atmosfera pura… immediato sale alla mente il parallelo con Bob Dylan, voci impastate di wiskey, voci che non definiresti immediatamente belle, ma mille volte più intense di altre cristalline e pulite.
Bob Dylan, Neil Young, Cat Power i riferimenti di questo affascinante cantautore che si impone subito con la forza semplice di un anti-folk sapientemente voltato in chiave lo-fi. I pezzi conquistano riuscendo a farci immergere in uno stato di sognante e ipnotica suggestione, non siamo più a Napoli.
Stanly Brinks pezzo omonimo ed autobiografico è anche quello che maggiormente colpisce.
Ed ecco Clemence, seduta accanto a me, che ora ci dice qualcosa… inizia a fargli da doppia voce, vuole che tutti accompagnamo Andrè in coro.
Un live pieno che sembra concludersi, paradossalmente, troppo presto.
Giù le chitarre, l’incanto sembra finito. Scendiamo… ma la serata prosegue, aspettano i Baby Blue.
La band di Prato è già sul palco a sistemare gli strumenti… pochi attimi e le note energiche e dissonanti di Far from Home iniziano a risuonare potenti, scandite dalla voce sensuale ed intensa di Serena Altavilla e sostenute da un incredibile Mirko Maddaleno alla chitarra e alla seconda voce.
Da fotografa non riesco a non subire immediatamente il fascino di una band che non solo tiene in piedi un concerto di come non ne sentivo da tempo, ma che sa decrivere la musica con una gestualità che ne sottolinea forza espressiva e ritmo trascinante.
E’ un indie-rock che sfugge a facili etichettature e che sa contemperare Velvet Underground, White Stripes con ricordi dei primi Talking Heads senza perderne assolutamente in originalità e freschezza.
I ragazzi sanno creare un’onda d’urto sonora sorprendente che conquista il pubblico per tutti i 14 pezzi in scaletta, senza cedimenti, con entusiasmo e affiatamento contagiosi.
Così in un crescendo sostenuto dalle linee di basso di Lorenzo Maffucci e da una batteria suonata con magistrale vigore da Graziano Ridolfo si passa per pezzi come Took he long, I don’t know e River fino ad arrivare a Porto Palo dove le voci di Mirko e Serena, anima del gruppo, si fondono in una parentesi sensuale e particolarissima che fa da preludio all’esplosivo finale affidato ad Earthquake, devastante deflagrazione ed intreccio di riff chitarristici, voci e pura energia.
Usciamo in strada, il freddo è forse ancora più rigido, ma non lo si sente più, felici di averlo affrontato e appagati da una serata così. (Lost Gallery)
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