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The Ballad of Darren – Blur

Blur_BalladSembra incredibile che a metà anni ’90, dando credito a una rivalità inventata e ridicola come quella tra Beatles e Rolling Stones, si potesse pensare che gli Oasis fosse i rocker migliori e i Blur solo uno scanzonato gruppetto pop per ragazzini; addirittura un giornalista attento come il compianto Minà affermò che gli Oasis erano certamente più solidi. E invece i due gruppi erano solo portatori di due approcci diversi alla musica e alla composizione, confluiti in risultati alquanto divergenti. Vista oggi nella giusta prospettiva la carriera dei Blur e del suo deus ex machina mostra con ogni evidenzia un percorso di crescita e ricerca continua, malgrado ritorni di inevitabile nostalgia, specie nei live. Leader indiscusso della band, Damon Albarn è oggi il miglior allievo dello stacanovismo creativo di Paul McCartney, capace di distribuire negli anni il suo talento nella coloratissima creatura virtuale dei Gorillaz (l’ultimo album risale appena a gennaio), specchio animato della sua indole più festaiola, nelle pause introspettive del suo album solista (uscito a novembre 2021) e nella viva pulsione della sua band principale: tre filoni che costituiscono il flusso canalizzatore di un estro fuori dal comune. Questa Ballata di Darren (dal nome della fidata guardia del corpo Darren “Smoggy” Evans) è la nona prova in studio, che arriva a otto anni dal precedente The magic whip, ma va correttamente inserita nella discografia dei Blur allargata a quella di Damon, compresi spin-off e collaborazioni varie, come erano inscindibili le prove soliste di Frank Zappa da quelle sotto l’egida delle Mothers of Invention. “I just looked into my life / And all I saw was that you’re not coming back“, comincia facendo i conti con un passato mosso da lucidi commossi glissati la romantica The Ballad, la cui placida intimità discende direttamente dalle rarefatte atmosfere islandesi dell’esordio solista di Albarn, trovando un ritornello ispirato alla decadenza dei primi Roxy Music, tra stacchi orchestrali, il lieve rollio delle chitarre, il basso sixties, l’aria maestosa e calma. Ma il bello delle reunion è ritrovare intesa e gioia di suonare, ed ecco che St. Charles Square porta il tipico marchio stralunato dei Blur, con citazioni da The fly degli U2 immerse in colorati cori sixties e un tema di chitarra sgangherato da stato di allucinazione, trovando una chiusura calante degna dei Kinks di Sunny afternoon. Le asciutte trame di Jam e Smiths si mescolano in Barbaric con un disegno di chitarra pulita che risale alla leggera complessità di Here comes the sun, trovando un basso dinamico che affila il ritornello spensierato, messo appena in crisi da un middle eight nel segno di Bowie, che racconta con invidiabile leggerezza il più totale smarrimento “we’d lost the feeling that we thought we’d never lose / Now where are we going?“. Già, dove? Se lo chiede con fascinosa eleganza Russian Strings, canzone sulla “senile autocrazia di Putin”, parole di Albarn, con scarnificato accordo tra voce suadente, basso stoppato e tondo, chitarra saponata, come nell’ultima St. Vincent, verso un crescendo misurato che si accalora come un inno glam rock di sussurri e lacrime, trafitto dai dardi vitrei di un solo di chitarra chiuso da un fade out sincopato e morbido di argute sei corde. The Everglades (For Leonard) si adagia su un delicato arpeggio acustico aprendosi con sviluppo melodico da crooner mediterraneo, in moto ciclico marino, solcato da un cambio solenne di smisurata preghiera, sogni infranti, grandi rimpianti e affanni gravosi, nel segno di una melodia cristallina e avvolgente da grande saga fantasy. Ma i Blur preferiscono il sole alla decadenza, ed ecco The Narcissist. Piazzata al centro dell’album, ne costituisce il vertice di scrittura pop, gioiello prezioso partorito dalla creatività incontenibile di Albarn, che riaccende la speranza “I’m going to shine a light in your eyes / You will probably shine it back on me“. Due note ritmate. Voce strozzata. Il battito che sale. Coretti in controcanto beatlesiani. Refrain di melodia spinta e cantabile al primo ascolto, falciato dagli accordi in controtempo di una chitarra che riecheggia corposa. Quattro note riaccompagnano alle strofe. Si riparte per un altro giro. La terza strofa conta sul solo basso. Il ritornello si conclude in acuto per riattaccare subito in rincorsa, chiudendo in loop di maestosi accordi rombanti e uscita sibilante. È un instant classic della band. Poi, retta da un sintetizzatore in odor di Kraftwerk e da un filtro robotico appena udibile nella voce, Goodbye Albert si avvicina alle trame psichedeliche dei Flaming Lips grazie alla scala avvitata e vischiosa eseguita da Coxon, che tiene viva la continua sensazione di bilico e si fa vertiginosa nel graffiante intreccio finale mentre si inerpica lungo una traboccante corrente ascensionale. La parata circense in slow motion di Far Away Island rimanda alle visioni lisergiche del John Lennon di Being for the Benefit of Mr. Kite! marciando in tre quarti sotto l’occhio di bue caleidoscopico che illumina la pista sciogliendo i cuori dei presenti. Ed ancora ai Beatles di Abbey Road conducono certe chitarre di Avalon, che nel nome forse allude ancora all’art rock dei Roxy Music, venata dal soul di una sezione fiati malinconica, che soffia accordi sul battere che scaldano come un fumante vin brulè sorseggiato per le strade innevate di Vienna. E da quel tepore s’innalza la perfetta ballata indie The Heights, fischi elettrici cannoneggiano le corde acustiche mentre la voce cesella tra i cori un falsetto pregiato e il drumming scandisce possente il suo ritmo spezzato, cercando di afferrare il tempo, “Something so momentary that you can only be it? / So momentary“, per attraversare infine una bollente cascata noise che separa il mondo da un’altra dimensione dove sparire per sempre, sotto lo scroscio, un attimo dopo l’ultimo passo. È insieme una partenza simbolica e un guanto di sfida, e noi vi aspetteremo ancora di ritorno dal viaggio, non tardate.

Credits

Label: Parlophone / Warner Records – 2023

Line-up: Damon Albarn (vocals, backing vocals, keyboards, piano) – Graham Coxon (guitar, backing vocals, lead vocals on “Sticks and Stones”) – Alex James (bass guitar) – Dave Rowntree (drums) – James Ford (keyboards) – Izzi Dunn (cello) – Ciara Ismail (viola) – Kotono Sato (violin) – Sarah Tuke (violin) – Alistair White (trombone) – Nichol Thompson (trombone) – Chris Storr (trumpet) – Danny Marsden (trumpet)

Tracklist:

  1. The Ballad
  2. St. Charles Square
  3. Barbaric
  4. Russian Strings
  5. The Everglades (For Leonard)
  6. The Narcissist
  7. Goodbye Albert
  8. Far Away Island
  9. Avalon
  10. The Heights


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