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I riff interiori della nuova psichedelia: intervista ad Ezio Piermattei (Poisucevamachenille)

Poisucevamachenille è la bizzarra metamorfosi di Ezio Piermattei, compositore pescarese colto con il vezzo dell’esplorazione psichedelica. Trentuno minuti che schiudono un eserciziario di stordente folk psichedelico a dimostrazione che l’Italia non è per nulla in retroguardia nei confronti di tanta musica che, ultimamente, riempie le pagine delle riviste specializzate più attente. Losthighways lo ha incontrato per scavare un po’ più a fondo nel suo interessante progetto.

Poisucevamachenille. Partiamo da questa bizzarra e, direi, quasi impronunciabile invenzione linguistica. Lewis Carroll, autore di Alice nel paese delle meraviglie parlava di “portmanteau-words” (letteralmente parole-valigia) per riferirsi a quei giochi di parole che dall’unione di frazioni di esse portano alla nascita di neologismi e forme verbali inedite. Ci sveli l’arcano di questa drusa verbale?
Esatto! Poisucevamachenille è la trasposizione verbale di una drusa (metafora mineralogica di ibridazione) grafica, ottenuta attraverso l’unione di sei elementi di diversa natura: un pesce, una ragazza, un ciuccio, un bruco, una mucca ed una macchina (poisson, pucelle, sucette, vache, machine, chenille, resa in francese con poisucevamachenille, ndr ). Una sorta di mostro animale umanizzato, come un soggetto di Gerolamo Bosch o una caricatura di J.J. Grandville. Ed una parola baule, per l’appunto. Il portmonteau, difatti, è un tipo particolare di baule diviso in due parti distinte, una delle quali entra telescopicamente nell’altra, pressappoco come una scatola entra in un coperchio che la racchiude completamente in sè. Se vuoi, possiamo tracciare un parallelismo tra questo neomorfismo linguistico e l’approccio con cui ho composto il disco: partendo, ossia, da un disegno unitario che digredisce in tante altre cose.

Di solito gli onomaturghi più fervidi ed i naturali inventori di nuove parole sono i bambini, i poeti ed i matti. Tu a quale categoria ti senti più vicino?
I poeti sono egocentrici ed ampollosi, tutti quei “me stesso” non mi fanno troppa simpatia. I matti sono ok, ma puzzano sovente di orina, e non vorrei mai emanare un olezzo simile. I bambini sono crudeli, ma fra i tre sono quelli che se la passano meglio: possiedono molta inventiva ed il loro immaginario è poco contaminato, privo di sovrastrutture, retaggi e fattori indotti. Per farla breve, ad un bambino, la parola “cresta di gallo” evoca un animaletto, uno scenario campestre onirico e fiabesco, non un condiloma acuminato. Sì, scelgo i bambini. Anche perché hanno un look supersonico!

Da questi presupposti prendono forma trentuno minuti di pura sperimentazione free-form e di devozione al caos. Un coraggio compositivo di cui in Italia un po’ sentivamo la mancanza. Com’è nato questo lavoro e quali son stati i tuoi riferimenti principali durante la composizione? Qual è l’anello di congiunzione tra i Levis Hostel, progetto post-pop di cui eri un po’ il deus-ex-machina, e questa tua nuova creatura?
La mia musica non è free form. C’è un percorso raziocinante – passami il termine – una legge stabilita, dall’inizio alla fine. Ma si tratta di una struttura non manifesta, dissimulata: un riff interiore, ecco. Durante la composizione del disco ho ascoltato in particolare Music of Nat Pwe una compilation di folk birmano della Sublime Frequencies, Prince, gli Ubzub ed Harry Partch, se non ricordo male. Anche le musiche che accompagno i corti di Švankmajer, ed una raccolta di novelty songs curata da Dr. Demento. Levis Hostel ha poco a che spartire con questo nuovo lavoro: musicalmente si addentrava in territori molto più rockistici. Era il mio tentativo di scalare la hit parade, insomma!

Hai pensato anche ad una dimensione live per questo progetto?
Ho smesso di suonare dal vivo parecchi anni fa, quando militavo in un gruppo punk in veste di bassista. Non credo di esserne ancora capace. Sono molto timido e per esibirmi dal vivo dovrei ubriacarmi, ma non posso bere più per motivi di salute.

Per certi versi sul fronte dell’innovazione musicale è proprio nei territori del cosiddetto nu-folk che, soprattutto in America, si stanno registrando le opere oggi più significative. Credi si possa parlare ancora di avanguardie musicali?
No, non parlerei d’avanguardia. I gruppi americani a cui fai riferimento non sono di certo i primi a mescolare musica popolare e musica colta; bisogna ammettere che il loro sound ha caratterizzato – in maniera positiva, è innegabile – questi anni dieci. Sta diventando un modo di suonare un tantinello inflazionato, però. Per me, le prove più coraggiose di questo genere sono arrivate dalla scena freak finlandese: Anaksimandros, Avarus, Es e Kemialliset Ystävät della Fonal Records su tutti.

Giorni addietro condividevamo su facebook l’amore per una suite de Le Stelle di Mario Schifano, un progetto beat italiano misconosciuto degli anni ’60, che rappresenta una pietra miliare della psichedelia tutta, e più in generale, dell’avanguardia musicale nel bel paese. Oggi come la vedi la situazione nel nostro paese?
Grandissimo disco, quello! Non sfigura affatto accanto ai capisaldi del genere. Devo dire che attualmente, in Italia, non c’è di che lamentarsi. Ci sono realtà molto interessanti in ambito (più o meno) rock. Mi vengono in mente Maisie, Mammuthones, Larsen Lombriki, Above The Tree, Jennifer Gentle, Dani Male, Butcher Mind Collapse,e soprattutto, Klippa Kloppa, che reputo il più grande gruppo italiano degli ultimi 20 anni. Band diverse tra loro stilisticamente, ma con una visione abbastanza personale della musica, come denominatore comune.

Carmelo Bene, nell’ormai storica comparsa al Maurizio Costanzo Show del ’94 sosteneva: “L’arte deve essere incomunicabile, deve solo superare se stessa”. Ti troveresti d’accordo con una tale affermazione?
Non so rispondere a questa domanda. Ricordo l’invettiva di un Giordano Bruno Guerri in grande spolvero. Devo ammettere che non sono ferratissimo sul personaggio in questione. Recentemente ho comprato il dvd di Nostra Signora dei Turchi + Hermitage della Raro Video. Non esageravano quelli di Blow up, in un articolo di qualche anno fa, nell’affermare che Bene sia stato l’unica vera rockstar italiana.

Dacci un titolo di un disco, di un film e di un libro fondamentali per te e senza i quali non saresti quello che sei oggi.
Domanda difficile.
Disco: Rise of the Common Woodpile dei Caroliner è forse il mio disco preferito in assoluto. Questa è la musica che vorrei saper fare.
Film: The Devils di Ken Russell.
Libro: La pietra lunare di Tommaso Landolfi.
Non sono sicuro che queste cose abbiano avuto un influenza effettiva su quello che faccio, ma mi piace immaginarlo.

Ti svegli di colpo e ti ritrovi a suonare il tuo disco di fronte a Mara Maionchi, Anna Tatangelo e Simona Ventura con espressione visibilmente stranita ed attonita nell’ascoltarti. Quale sarebbe, di primo acchito la tua reazione?
Secondo me la Maionchi apprezzerebbe invece, non è mica nata ieri. Ad ogni modo, mi sentirei a disagio, ma proverei comunque a spiegare loro la teoria del riff interiore.

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