Il doppio appuntamento dell’Out Here Festival poteva a prima vista sembrare un azzardo per aver portato in scena due progetti apparentemente agli antipodi. La scelta, invece, si è rivelata particolarmente azzeccata perché il comune denominatore tra il duo Bono-Burattini e Marta Del Grandi sta nel sentire la musica come una dimensione assolutamente personale in cui esprimersi liberamente, senza cercare di compiacere il pubblico, men che meno di strappare un like da social, sollecitando al contrario un ascolto più attento e profondo. Quello richiesto e necessario per entrare a pieno nelle due performance viste sul palco dell’ex Cinema Eliseo di Avellino, lo scorso 17 maggio.
Francesca Bono e Vittoria Burattini arrivano in punta di piedi a eseguire senza fronzoli la sonorizzazione di tre corti muti di Maya Deren (cineasta sperimentale d’avanguardia ucraina naturalizzata americana degli anni ’40), raccolta nell’album Suono in un tempo trasfigurato, sviluppando le versioni di studio con minime e significative varianti. Lo fanno con una tavolozza prosciugata di elementi sonori, fatta di loop minimali di tastiera vintage (una Roland Juno-60), vocalizzi di singole note reiterate, asciutti e assorti come un mantra, pattern vigorosi di batteria e poche altre coloriture. Il duo disegna un paesaggio sonoro immaginifico ed evocativo, quasi in totale assenza di luci di scena (talvolta il palco è tutto blu, talvolta tutto verde), lasciando allo scorrere lisergico dei suoni il compito di imprimere immagini nella mente degli ascoltatori. Un concerto serrato, che non ammette pause allo scorrere immaginario di tre pellicole, in cui lo schema di base, l’intuizione di ogni singolo brano è portato sull’orlo dello spasmo, incalzando con lunghi acuti e trame ritmiche sulle pelli di timpano e tom, con un pathos umanissimo che scalderebbe anche la più fredda armonia elettronica, evitando accuratamente di scivolare nell’ambient destinato a far da sottofondo in un club. Giacché è impossibile distrarsi a parlare mentre si è investiti dal battito inquietante di Ossa, avvolti dall’arpeggio ipnotico de La trama del desiderio, che a tratti pare modulata sull’intro di Baba O’ Riley degli Who, quando si è trasportati nel mondo etereo di Dinner illusion o toccati dalla malinconica decadenza di Your house is a ghost, aperta com’è da un drumming possente che sconquassa. E si resta infine ammaliati dal muro di suoni di un esperimento pienamente riuscito.
Diverso sapore ha il set di Marta Del Grandi che arriva programmaticamente sul palco arpeggiando Shy heart, dall’album d’esordio, accompagnandosi con una elettrica Jacaranda JK con tecnica all’apparenza elementare eppure costruita su posizioni di accordi inusuali, come le progressioni eccentriche della scrittura di Marta, pensati per armonizzare con la voce vibrante della cantautrice, che modula gran parte del sapore dei brani spaziando dal più lieve sussurro di brezza all’epica corposa e lirica di Joan Baez. E lo fa guardando sorridendo l’Eye of the day, qui rinforzato dal rombo dei timpani di Gabriele Segantini e il sospirato violino di Vito Gatto, ridisegnando le composizioni dell’ultimo Selva per un trio capace di non perdere nulla di quella ricchezza di suoni e sfumature, in un dialogo continuo delle parti strumentali, come nell’estetica dandy di Chameleon eyes o nelle tangenziali incursioni ritmiche che ora spezzano le ansie sintetiche di Mata Hari, ora le trascinano in una corsa a rotta di collo. E un taglio ancor più percussivo riceve lo scioglilingua tribale Snapdragon, percorso da un campionario noise e vocalizzi estremi di vorticose derive psichedeliche. La wyattiana Polar bear village viene risolta in intreccio di nuovi suoni sognanti e concreti, di metalli tintinnanti e voce liquorosa d’antica fiaba invernale, e per questa via anche le lente cadenze di Good story si gonfiano di venti serali e luci accecanti. Blu. Alba bucolica. Marta avanza sull’orlo del palco, tessendo con le dita aperte un ricamo di voci della natura che danzano nell’aria ancora fredda del mattino, mescolandosi nella coreografia di una loop station per annunciare con Selva l’arrivo della stella del sole con tutto il suo calore, e il cuore si perde. Così si torna alle origini per trovare le trame oscure di Totally fine e i suoi acuti decadenti, stemperati dal racconto di un viaggio in Nepal da cui è scaturita Marble season, retta da un’arpeggio disegnato sui bassi rotondi della JK da cui spicca il volo un canto di soave misticismo e lacrime torrenziali. Allora si precipita a rincorrere l’amore con la dolce dichiarazione di Stay, cui segue la malinconica riflessione di Somebody new ì, prima di chiudere la serata, voce e chitarra soltanto, navigando in solitaria e senza paura le acque calme di The best sea, perché col coraggio dell’amore possiamo correre nella tempesta.