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Sticky fingers – The Rolling Stones

Sticky FingersCosa può rappresentare meglio l’immediatezza del rock se non il ruvido, grezzo, a tratti rudimentale ed energico riff introduttivo di Brown Sugar che apre come una scossa adrenalinica Sticky Fingers il nono album dei Rolling Stones, pubblicato il 23 aprile 1971 dalla neonata Rolling Stones Records. Sebbene nata da un’intuizione di Jagger, Brown Sugar è tutta in quell’inconfondibile riff della chitarra di Richards, cui si accoda quasi al ralenty il resto della band seguendo il ritmo di pacata accidia tipico del drumming di Charlie Watts. Uno sviluppo che rappresenta l’archetipo della costruzione armonica degli Stones visto che pochi secondi dopo, scossi dall’improvviso ingresso di un’acustica squillante, la band sembra accelerare di colpo trovando quel sexy funky groove, frullato dal sax di Bobby Keys, che ha fatto la fortuna del brano, che sin dal titolo puntava dritto a un esplicito racconto di sesso e droga, come dichiarato da Jagger: “the lyric was all to do with the dual combination of drugs and girls. God knows what I’m on about on that song. It’s such a mishmash“. Registrata al Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield in Alabama nel dicembre del ’69, su richiesta di Mick Taylor che aveva rimpiazzato lo scomparso Brian Jones nel luglio dello stesso anno, gli Stones presentarono per la prima volta Brown Sugar dal vivo al tragico concerto di Altamont (6 dicembre 1969) durante il quale gli Hells Angels pestarono a morte Meredith Hunter, un ragazzo del pubblico. L’ennesimo colpo, dopo la morte di Jones, che avrebbe potuto mandare in frantumi la band, ritardando di due anni l’uscita di un nuovo album di inediti dopo lo splendido Let it bleed (1969). La personalità di Taylor, un bluesman rodato che aveva già preso il posto di Peter Green nei Bluesbreakers di John Mayall, era molto distante dallo sperimentalismo eclettico di Brian Jones, ma probabilmente era anche quello di cui la band aveva bisogno per rinsaldare il sodalizio compositivo del duo Jagger/Richards, che difficilmente avrebbe potuto convivere a lungo con una leadership a tre elementi. Così gli Stones si ripresentano al pubblico con formazione rinnovata e session men di lusso, e con sfrontatezza ribelle, esplicita sin dalla copertina pop art ideata da Andy Warhol: una foto della patta di un paio di jeans in primo piano. Nelle prime versioni stampate dell’album si trattava di una vera cerniera che svelava un paio di slip, in seguito sostituita da una semplice foto per via dei costi di produzione. Ma l’iconicità dell’album viene anche dalla prima apparizione del celebre logo della linguaccia, disegnata da John Pasche seguendo il suggerimento di Jagger che avrebbe voluto una copia della lingua della dea Kali. E così, “one, two, three, four“, il rock si srotola nello slow blues circolare di Sway, di Jagger e Richards, con la sanguigna slide di Taylor, il canto caldo di Jagger, il ritmo rigonfio di elettriche e batteria, il piano rock’n’roll di Nicky Hopkins, e l’epico ondeggiare degli archi, perché: “it’s just that demon life has got me in its sway“. Wild Horses è la perfetta ballata della coppia Jagger/Richards, registrata al Muscle Shoals Sound Studio in Alabama durante le riprese del film Gimme Shelter. Il suono della dodici corde di Keith riempie la scena come un’orchestra, tanto da rendere quasi superflue le coloriture di Taylor, mentre la voce maleducata di Jagger non è forse mai stata tanto dolce, avvolgente e malinconica, neppure ai tempi di Lady Jane. E con melodiosa sofferenza si apre dalle strofe ai ritornelli con una fluidità commuovente, tanto che impossibile trattenersi dal cantargli dietro e condividere la fuga nella natura di una mandria di cavalli selvaggi. La struttura d’attacco di Brown Sugar, invece, trova subito un incredibile epigono nelle grezze note introduttive di Can’t You Hear Me Knocking con le chitarre sature e graffianti, che macinano rock a tutto spiano, preparando il crescendo corale del refrain che sfocia inaspettatamente in una lunga e gustosissima jam, che porta il brano oltre i sette minuti. Si improvvisa liberamente in studio mescolando blues stralunato, ossessivo e urticante, i ritmi tribali delle congas di Rocky Dijon e le percussioni di Jimmy Miller, il sassofono jazz di Bobby Keyes, i soli lisergici quanto puliti alla Jerry Garcia, l’organo allucinato di Billy Preston. Secondo le dichiarazioni di Richards e Taylor la coda fu registrata a insaputa dei musicisti in studio, convinti di aver terminato l’incisione della parte cantata, poi pian piano visto che la jam ingranava tutti imbracciarono nuovamente gli strumenti riposti, consegnando una delle migliori performance spontanee di live in studio di una grande orchestra rock. La migliore lettura della canzone l’ha data forse Martin Scorsese, che a dispetto della lunga durata del brano l’ha utilizzata per intero come colonna sonora dell’escalation di violenza che segna l’ascesa criminale di Joe Pesci/Nicky Santoro nel suo film Casinò (1995). You Gotta Move è uno spiritual tradizionale, inciso a partire dagli anni ’40 da molti musicisti gospel come Sister Rosetta Tharpe (1950) e gli Original Five Blind Boys of Alabama (1953). La versione degli Stones riprende in maniera molto rispettosa, cercando di conservarne l’atmosfera di blues rurale, quella incisa nel 1964 dal bluesman Fred McDowell (erroneamente indicato come autore nelle note di copertina di Sticky fingers), col solo ausilio della sua vibrante slide. Il groove trascinante di Bitch, della coppia Jagger/Richards, è basato su un riff utilizzato spesso da Hendrix nelle improvvisazioni live a partire dal 1969, figurando ad esempio nella scaletta di Woodstock come Jam Back at the house. Con l’aggiunta di una corposa sezione fiati, oltre al sax di Keys anche la tromba di Jim Price, la jam si struttura in gustoso rithm’n’blues, sentito omaggio alla tradizione black che si prolunga nella lenta cadenza di I got the blues, in cui rivive il soul denso e sensuale di Otis Redding e Sam Cooke, coi suoi puliti intrecci di chitarra, la voce sanguigna, melodica e sporca di Jagger, i fiati corposi che riempiono il cuore, gli accenti gospel dell’organo di Billy Preston. Sister Morphine è stata scritta a sei mani con Marianne Faithfull, all’epoca compagna di Jagger, che ne pubblicò a suo nome la prima versione per la Decca il 21 febbraio 1969 con Jagger all’acustica, Ry Cooder alla slide, Jack Nitzsche al piano e organo, e Charlie Watts alla batteria. La stessa formazione venne mantenuta, ad esclusione della Faithfull, nella versione su Sticky fingers che senza stravolgere la struttura del brano accentua la spigolosità dei suoni, ampliando lo spettro quasi lo-fi e vagamente macabro dell’originale, con il canto più aggressivo e roco di Jagger, l’acustica corposa di Richards, la slide irrefrenabile di Ry Cooder e soprattutto il piano surreale e distante di Jack Nitzche, che squarcia l’orizzonte in dialogo distorto con una voce sempre più scura, quasi indecifrabile. Di tutt’altra atmosfera è Dead Flowers, che a dispetto delle liriche, che alludono esplicitamente al consumo di eroina (“I’ll be in my basement room, with a needle and a spoon“), si presenta come il più disteso episodio dell’album con la solare slide di Taylor, l’andamento honky-tonk del piano di Ian Stewart, e naturalmente lo spigliato ritornello che si stampa in testa al primo ascolto. È l’inizio di una nuova felice stagione del gruppo, ne sono consapevoli, e forse per questo decidono di chiudere con l’epico viaggio orientale di Moonlight Mile, anche l’ultima canzone registrata, ormai ad ottobre del 1970 allo Stargroves, nel corso di una jam notturna di Jagger e Taylor che rielaborarono uno spunto di Richards intitolato provvisoriamente Japanese Thing. Taylor ebbe poi la felice idea di aggiungere l’arrangiamento orchestrale, curato da Paul Buckmaster, dilatando la jam in un etereo dialogo tra archi e chitarra, finché la disperata passione notturna non viene spazzata via dalle morbide dissonanze di un’alba esotica e radiosa. E anche se non hanno più da tempo l’ispirazione per licenziare un album di tale livello è straordinario pensare che gli Stones siano ancora oggi una delle migliori live band in circolazione. Da ascoltare a tutto volume!

Credits

Label: Rolling Stones Records – 1971

Line-up: Mick Jagger (lead vocal, backing vocals (2–5, 9), acoustic guitar (9, 10), castanets (1), maracas (1), electric guitar (2), percussion (3)) – Keith Richards (electric guitar (1, 3–7, 9), acoustic guitar (1, 3, 5, 8, 9), backing vocals (1-7, 9)) – Mick Taylor (electric guitar (1, 2, 4–7, 9, 10), acoustic guitar (3)) – Bill Wyman (bass guitar, electric piano (5)) – Charlie Watts (drums) – Paul Buckmaster (string arrangement (2, 10)) – Ry Cooder (slide guitar (8)) – Jim Dickinson (piano (3)) – Rocky Dijon (congas (4)) – Nicky Hopkins (piano (2, 4)) – Bobby Keys (tenor saxophone (1, 4, 6, 7)) – Jimmy Miller (percussion (4)) – Jack Nitzsche (piano (8)) – Billy Preston (organ (4, 7)) – Jim Price (trumpet, piano (7,10)) – Ian Stewart (piano (1, 9))

Tracklist:

  1. Brown sugar
  2. Sway
  3. Wild horses
  4. Can’t you hear me knocking
  5. You gotta move
  6. Bitch
  7. I got the blues
  8. Sister Morphine
  9. Dead flowers
  10. Moonlight mile

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