“Lo scopo principale dei King Crimson è di organizzare l’anarchia, di utilizzare la forza latente del caos e riconoscerne le varie influenze per interagire e trovare il proprio equilibrio” (Robert Fripp)
Questa descrizione calza a pennello per una band che solo pochi mesi dopo la sua formazione esordisce come spalla dei Rolling Stone al celebre Free Concert tenuto il 5 luglio 1969 ad Hyde Park davanti ad oltre 300.000 persone, in onore di Brian Jones, scomparso solo due giorni prima.
E bastano appena otto giorni di registrazione nei Wessex Sound Studios di Londra, nel corso di quel mese di agosto che vede l’uomo sbarcare sulla luna, per realizzare il capolavoro che è In the court of the Crimson King (an observation by King Crimson), pubblicato da Island e Atlantic il 10 ottobre, rispettivamente in Europa e Stati Uniti.
Potrebbero bastare i sette minuti e mezzo di 21st Century Schizoid Man a consacrare la band nell’Olimpo del Rock. Il riff hard rock, eseguito all’unisono dalla chitarra distorta di Fripp e il sax di Ian McDonald, con la sua progressione incalzante dai bassi profondi agli acuti più urlati, sembra scolpito nella roccia di un futuro distopico in cui si proiettano, attraverso la voce distorta e urticante di Greg Lake (che altrove è tra le più melodiose mai udite), le ansie e le follie dello scorcio degli anni ’60, tra Politicians’ funeral pyre e Innocents raped with napalm fire, parole violentemente epiche e visionarie che costituiscono una delle più forti denunce delle atrocità della guerra in Vietnam, assieme alle bombe sganciate negli stessi giorni dalla Fender di Jimi Hendrix sul palco di Woodstock. Sarà per questo che la forma canzone si dilata in un complesso intermezzo strumentale, uno spartito per soli virtuosi, sottotitolato Mirrors, in cui la rabbia cadenzata dell’introduzione si sprigiona furiosamente in accelerate pirotecniche che accompagnano il primo assolo ‘frippiano’ giocato su sustain e feedback assordanti derivati da Hendrix ma inseriti in scale che rifuggono dalla visceralità della pentatonica blues, in cerca di uno sviluppo melodico avulso da ogni canone prestabilito, molto vicino agli esperimenti afrodisiaci del free jazz, ponendosi come un contraltare chitarristico del violino acido di John Cale dei Velvet Underground. Una performance registrata in presa diretta, non avrebbe potuto essere altrimenti, frutto dell’affiatamento mai più raggiunto da un combo formidabile, nel quale Fripp è un primo tra pari, col suo estro chitarristico cui tengono testa la tenacia ritmica di Michael Giles alla batteria, il virtuosismo del polistrumentista Ian McDonald, che si divide tra flauto, sassofono, clarinetto, organo, piano, mellotron e virafono, fino alla solidità del basso di Greg Lake, capace di straordinaria versatilità vocale. Un momento irripetibile: la band si sfalda immediatamente dopo aver riscosso il meritato successo, suggellato da un tour americano, con McDonald e Giles che si dedicano a un album a proprio nome (McDonald & Giles, 1970), esemplare rarissimo, in cui esplorano i territori percorsi nelle restanti tracce della ‘Corte del Re Cremisi’, mentre Lake si unisce a Keith Emerson dei Nice per formare il celebre trio Emerson, Lake & Palmer.
La musica cambia totalmente con I Talk to the Wind, una morbida e malinconica ballata di McDonald in cui il gruppo di furie schizofreniche del ventunesimo secolo si rassetta le chiome scomposte e indossa gli abiti eleganti di un’orchestra da camera, in linea con la tendenza inaugurata dai Moody Blues con Night in white satin (10 novembre 1967), ma superando il rischio dell’appessantimento orchestrale con la leggerezza di un flauto che danza lievemente per tutta la durata del brano. E anche quando l’atmosfera si fa decisamente più drammatica, come in Epitaph (including March for No Reason and Tomorrow and Tomorrow), il massiccio e gustoso utilizzo del mellotron dinamizza incisivamente l’arrangiamento di un brano basato su un ciclico giro armonico arpeggiato alla chitarra, con riverbero solenne da cattedrale gotica, culminando in un crescendo maestoso ed epico sul quale troneggia la possente e dolce voce di Lake, che declama il testo profetico di Sinfiled ‘The fate of all mankind I see/ Is in the hands of fools‘. Moonchild (including The Dream and The Illusion) apre il Lato B col suo fraseggio spettrale sul quale Lake imbastisce un racconto degno della letteratura horror britannica del XIX secolo. Ma la forma canzone dura appena due minuti è mezzo, in quella che è la composizione più lunga dell’album, seguita com’è da un lunghissimo intermezzo di chitarra, vibrafono e percussioni che si inseguono, senza ritmi definiti o armonie, come il cinguettio di uno stormo di uccelli in un bosco incantato. Il bosco fiabesco di una saga fantasy oltre il quale si giunge finalmente all’alto castello del re, dove risiede The Court of the Crimson King (including The Return of the Fire Witch and The Dance of the Puppets), con la sua poetica melodia, scritta da Ian McDonald, la Black Queen e la Fire Witch, che declinano il tema in mille sfumature e accenti di elegante e variopinto minimalismo, ben rappresentato dalla celebre e magnetica cover disegnata da Barry Godber.