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D’amore e di altre cose irreversibili: Flo @ Chiostro di Santa Maria la Nova – Napoli 22/05/2015

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Stasera vi perderete, come a noi piace perderci, anzi, siamo già persi“.
Si presenta così Floriana Cangiano sul palco allestito in un angolo del chiostro rinascimentale di Santa Maria la Nova, nel cuore di Napoli, coi suoi archi del colonnato e il campanile cuspidato a far da quinta. L’accompagnano tre quinti dei Ringe Ringe Raja (manca il clarinetto di Massimiliano Sacchi e la fisarmonica di Cristiano Della Monica), già attivi nell’album di esordio della cantante partenopea D’amore e di altre cose irreversibili (Agualoca Records, 2014), anche in fase di arrangiamento, dove spicca il contributo del chitarrista e produttore Ernesto Nobili, il cui sodalizio con Flo, in studio come dal vivo, ricorda per certi versi quello tra Ryan Francesconi e Joanna Newsom. Sul palco Nobili è una sobria maschera di felicità, mentre si alterna tra classica e acustica, e gioioso è il suono che produce con ricette semplici di ingredienti complessi; del resto il nome della band di cui fa parte vuol dire ‘giro giro tondo’, in sintonia col clima gioviale e di serena passione che anima la serata: non sorprende che il set cominci con una ninnananna turca, Dandini. Con misurata e precisa varietà, Michele Maione segna il ritmo dei brani grazie a un ricco set di percussioni: siede su un cajon (scatola di legno di origine peruviana), alla sua sinistra un contenitore di latta di Caffè Illy da suonare con le mani o le spazzole, davanti a sé un paio di piatti e un charleston che nasconde forse un woodblock usato a mo’ di rullante, ma come da un cilindro magico tira fuori all’occorrenza anche djembe, shaker e una tammorra della Remo. Marco Di Palo al violoncello sostituisce il basso sia con le note grevemente prolungate dall’archetto, sia pizzicandolo come un vero e proprio contrabbasso e difatti il sound che ne deriva non è esattamente quello di un ensemble da camera, al contrario i tre strumentisti effettuano talvolta dei passaggi all’unisono che risultano decisamente rock.

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E poi c’è la voce. Una voce che ha il sapore ardente della sua terra, la dolcezza di un tenero abbraccio, la furia impetuosa e improvvisa del mare ondoso, il sussurro del vento che increspa l’erba di campo: Floriana può cantare qualsiasi cosa. E infatti i brani presentati sono un viaggio tra generi, idiomi e continenti, tanto nelle cover che in quelli originali, estratti dall’album, a partire dalla title-track che racconta, con ritmo in salita, di una dolente attesa e di quel perdersi annunciato nell’incipit del concerto. E con pari padronanza si passa dalle raffinate sfumature portoghesi di Meu tempo melhor all’accorato omaggio alla Catalogna di Olor a lluna (scritto insieme ad Alessio Arena), che si direbbe nato all’ombra di un fresco patio in un giardino fiorito, mentre infervorano i preparativi di una festa. Così anche la scelta delle cover, che spaziano dalla Dolcenera di De André (sapientemente adattata alla ridotta formazione e alle differenti qualità vocali di Floriana), fino al tango di Carlos Gardel e agli chansonniers alla Brassens, offre la chiave di lettura dell’esibizione quando viene eseguita A Festa di Milton Nascimento. La celebrazione parte in sordina, con Floriana che finge scherzosamente di scrivere a macchina imitando il ticchettio dei tasti con schiocchi della lingua e fantasiosa mimica, crescendo nelle strofe frizzanti variate da intermezzi di sangue denso, per lasciare poi spazio all’assolo di percussioni. Si vede che Maione, fin qui sempre molto pacato, non può essere trattenuto a lungo e parte, dunque, in una sfuriata multiforme in cui mette in campo l’intero armamentario e per un attimo si confonde col rombo di un aereo che ci sorvola distante: tale è l’energia che si sprigiona dalla sola tammorra, cui affida il virtuosistico finale. Ma non basta, Flo si fa avanti con passi felpati e inizia un duetto che è più di un omaggio al Sud America, è la ricerca di Macondo in un “Sud immaginario” (come dichiara la stessa cantante a proposito del suo esordio), una messa in scena della foresta pluviale, coi cinguettii di variopinti volatili e i ruggiti di fiere selvagge interpretati con la divertita e divertente facilità che è propria dei grandi. Sarebbe tutto perfetto, se non fosse per la pioggia improvvisa che Flo prova a esorcizzare invano (“questa pioggia non è reale la stiamo creando noi“) sulle morbide note sincopate di Ça ne tient pas la route. Lo scroscio continua e il concerto si chiude a tre brani dalla fine. Non sarebbero bastati comunque per una serata che poteva non avere fine. Assolutamente da (ri)vedere.

Gallery fotografica di Alessio Cuccaro

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