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Homegrown – Neil Young

Neil Young - Homegrown coverI apologize. This album Homegroown should have been there for you a couple of years after Harvest. It’s the sad side of love affair. The damage done. The heartache. I just couldn’t listen to it. I wanted to move on. So I kept it to myself, hidden away in the vault, on the shelf, in the back of my mind” (Neil Young). Il canto è liberatorio, taumaturgico e rivitalizzante. Per questo cantare è un bisogno primordiale dell’umanità, che accomuna tutti, anche i non professionisti. Ma a volte il dolore esorcizzato con la voce è troppo grande, insostenibile alle orecchie di chi vuol liberarsene. Ha impiegato una vita Neil Young a superare e accettare quella straziante urgenza che ha ispirato le canzoni contenute nel suo quarantesimo album di studio, pubblicato lo scorso 19 giugno a ben 45 anni dalla sua registrazione, effettuata tra il giugno del 1974 e il gennaio dell’anno seguente, dopo l’uscita dell’acclamato On the Beach, parallelamente alla lavorazione del successivo Zuma. Come per questi due lavori, gran parte del materiale è stato ispirato dalla relazione con l’attrice Carrie Snodgress, conclusa tristemente nel 1974, in un biennio straordinariamente prolifico per Young. Homegrown era già completo in ogni sua parte per una pubblicazione nel 1975, ma poi al suo posto è stato preferito Tonight’s the Night, registrato nel ’73, sebbene diversi brani di quelle session abbiano negli anni visto ufficialmente la luce alla spicciolata in altri progetti o sono state eseguite dal vivo, mentre l’organicità e la versione originale pensata per l’album sono rimaste in gran parte inedite fino ad oggi. Non è dunque casuale iniziare l’album con le parole di Separate Ways “I won’t apologize/The light shone in from your eyes/It isn’t gone/And it will soon come back again“, verso emblematico per iniziare la scaletta scusandosi per il tremendo ritardo, che apre le danze con una lenta ballata che si fa incisiva grazie al basso stoppato e preciso di Tim Drummond in primo piano, con la morbida steel guitar di Ben Keith e il canto distante, distaccato di Young che recita quasi senza volere il testo mentre la sua mente è rivolta ad altro. L’album si avvia così su un tono dimesso e lo-fi che ritorna in veste da country sdrucito per bettole polverose in Try, che si desta in improvvisi sussulti per ricadere morbidamente sull’assolo centrale, crescendo nel finale con un piano quasi rag-time. E il piano, suonato dallo stesso autore, ritorna in Mexico la più immaginifica traccia dell’album, percorsa da un senso di sospensione temporale minimalista, mentre Young affonda lentamente la lama del suo passionale falsetto nelle carni ipnotizzate di chi ascolta. Love Is a Rose è la prima canzone registrata per l’album, a giugno del ’74, basata sul giro armonico di Dance, Dance, Dance dello stesso Young sviluppa il tema della ballata solitaria e malinconica. Già nota da varie pubblicazioni con i Crazy Horse, Homegrown è un genuino country rock che sarebbe molto piaciuto agli avventori del locale in cui finiscono per caso i Blues Brothers spacciandosi spudoratamente per i Good Ole Boys. Piazzata al centro dell’album, Florida sembra replicare gli esperimenti di Frank Zappa, inserendo scampoli di banali conversazioni in una sonorizzazione rumoristica ottenuta amplificando il suono prodotto da un dito sfregato sull’orlo di un bicchiere. Kansas, con la sua trama buia e meditativa che si dipana sui bassi dell’acustica come il suono di una pesante lama calata con forza sulla vittima sacrificale, è il contraltare di Mexico, il lato oscuro del sogno, le cui ombre lunghe si irradiano dai brandelli di un’armonica spettrale. Di segno completamente opposto è We Don’t Smoke It No More, uno slow blues scazzato da bordello della Louisiana, con un coretto bugiardo e sfrontato e assoli che scivolano e sbandano, persi nei i fumi di una sbronza colossale. White Line, registrata in Inghilterra pochi giorni prima del concerto di CSNY a Wembley, mostra uno splendido duetto acustico con Robbie Robertson, che offre con la sua melodiosa chitarra solista il perfetto contraltare alle sofferte evoluzioni vocali di Young, alla sua straziante armonica.  Segni inequivocabili di assenza, anelito e mancanza, sensazioni che trovano in Vacancy un classico ritornello rock col giusto dosaggio di grinta, melodia, orecchiabilità,  in cerca di un esorcismo, una possibile ripresa, una redenzione. Una ricerca che sfinisce e getta il protagonista in un abisso in cui intravede il bianco bagliore di Little Wing, una voce che rischia di sparire per sempre nel silenzio profonda ferita aperta, in cui penetra il fatale spasimo di un’armonica slabbrata in preda a un pianto inconsolabile. Ma per fortuna di Young, della musica e di noi ascoltatori, il dolore è ormai superato e vinto, ed ecco che nel firmamento si staglia Star of Bethlehem, la stella che, alleggerita dai cori di Emmylou Harris, annuncia la buona novella e chiude l’album nel segno di una ritrovata speranza. Grazie Neil, non è mai troppo tardi.

Credits

Label: Reprise Records – 2020

Line-up:
Neil Young (guitar, harmonica, piano, wine glass, piano strings, narration, vocals) – Ben Keith (pedal steel guitar, lap slide guitar, dobro, wine glass, piano strings, narration, vocals) – Tim Drummond (bass, vocals) – Levon Helm (drums) – Karl T. Himmel (drums) – Robbie Robertson (guitar) – Emmylou Harris (backing vocals) – Sandy Mazzeo (backing vocals) – Stan Szelest (piano, Wurlitzer piano)

Tracklist:

    1. Separate Ways
    2. Try
    3. Mexico
    4. Love Is a Rose
    5. Homegrown
    6. Florida
    7. Kansas
    8. We Don’t Smoke It No More
    9. White Line
    10. Vacancy
    11. Little Wing
    12. Star of Bethlehem

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