“There’s Howard Hughes in Blue suede shoes, smiling at the majorettes smoking Winston Cigarettes”
(Genesis, Fly on a Windshield / Broadway Melody, 1974)
Il Godot Art Bistrot di Avellino, teatro dell’esibizione, non è una semplice vineria né una sala concerti. È un luogo del possibile dove prendono forma la curiosità vorace e la delicata passione del fondatore, Luca Caserta, per la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, il teatro, la buona cucina e il buon vino. È un piccolo locale bipartito come due vitali polmoni, una sala dedicata alla degustazione e alla vendita di libri la cui parete destra, come nello studiato disordine di un set di Wes Anderson, è una rappresentazione concreta e immaginifica di questa incessante curiosità e del ricordo di una vita, e delle molte vite che l’ispirano; l’aula per i concerti con il suo arco che introduce al palco come al presbiterio di una basilica è il tempio in cui si celebra il rito della ricerca. In quattro anni di attività vi sono stati ospitati oltre trecento spettacoli, cifre che da sole sembrano la giusta ricompensa per l’impegno e la dedizione continua, così come le parole dello stesso Gabrielli che ha lodato il Godot con un inequivocabile “magari ci fosse ad Arezzo un posto così”.
Il concerto del trio “in incognito” si apre proprio come l’esordio discografico con Nicotine freak, il cui incipit a tre voci è una gustosa reinvenzione della prima traccia del primo album dei Soft Machine, band che resta il principale punto di riferimento per i “fratelli” Winstons (we did it again, we did it again…).
Gabrielli è un musicista completo, pienamente a suo agio nell’esecuzione di brani dalla complessa architettura. Suona contemporaneamente un Piano Rhodes Mark II, su cui poggia una Mini GEM, e una Tiger Eko disposte ad angolo retto senza mai guardarle. Lo sguardo è fisso verso l’ignoto in cui si proietta la musica eseguita, quando il suo scorrere è fluido come un siero ipnotico (…On a dark cloud); il capo ondeggia da un lato all’altro ogni volta che il battito sale, spinto dalle bizzarre onde del trio che montano piene come burrasca. Con pari disinvoltura affronta le meno frequenti, ma non meno incisive, incursioni ai fiati. E dal jazz più ardito del sax di Diprotodon passa alle misteriose divagazioni di un flauto fischiante o alle movenze classiche e accoglienti di quello traverso. Si rivolge al pubblico con uno strano sarcasmo, a volte esilarante a volte indecifrabile (tranne che per i sodali), ma rifiuta categoricamente che gli si richiedano brani di un’altra band cui non faremo cenno.
“Ufo” Lino Gitto è una splendida scoperta. Ha un drumming sicuro e carico di groove, accompagna e informa del suo tono sornione il sound della band. Ma non solo. Direttamente dall’inventiva patafisica di Robert Wyatt raccoglie quella straordinaria capacità di modulazione, nel canto come nelle progressioni di accordi della tastiera Nord Lead 2, fatta di intervalli inusuali che legano note con traiettorie inclinate, guizzanti e imprevedibili, con la stessa facilità mostrata con piatti e pelli.
Dell’Era è l’istrione del palco con un gusto per la jam qui più vivo che in altri suoi progetti; predilige il falsetto e i cori beat (Play with the rebels), incarnando il lato psichedelico della band. Con archetto da violino trasforma le corde del basso in ondate cremose, e imbraccia talvolta una dodici corde Davoli per l’arpeggio dei brani più morbidi come per gli assoli infuriati della travolgente She’s my face.
Ma il trio vale ben più della somma già notevole dei singoli. Legati da invidiabile intesa i tre si scambiano spesso di posto in un gioco continuo, Gitto siede alle tastiere mentre Gabrielli, preannunciando con eccessiva modestia l’ennessima “figuraccia” del tour, impugna le bacchette; il ritmo viene sostenuto anche da Dell’Era con occasionali colpi sui piatti, mentre all’avvio di Tarmac invoca un delay natalizio per un loop vocale simulato e onomatopeico che ricorda l’Alifib di Wyatt così come il canto di Gitto, cui fa da tappeto, mentre quattro mani si piegano e incastrano sui tasti bianchi e neri che abbondano sul set.
Così le dieci tracce che nell’album stavano tutte in meno di cinquanta minuti si dilatano dal vivo in un set completo di circa un’ora e mezza, anche grazie a due graditissime cover. I know what I like (in your wardrobe) dei Genesis arriva allegramente a metà dell’esibizione, scatenando un breve dibattito sulla sua datazione, premiato da Gabrielli con l’offerta di una tequila. I bis, iniziati con la dilagante Il suono a tre dimensioni, spiegato dalla voce di un vecchio mangianastri azionato come un complesso esperimento scientifico, si concludono con le note di Changes (“il brano di un amico”) intonate con personalità e scioltezza da Gitto: un omaggio sentito e leggero al compianto Bowie, scomparso da poco, che aggiunge all’euforia di una serata esaltante un pizzico di dolce malinconia.
Gallery fotografica di Alessio Cuccaro