Home / Recensioni / The Dark Side of the Moon – Pink Floyd

The Dark Side of the Moon – Pink Floyd

The_Dark_Side_of_the_Moon_Cover.svgTutto è buio nel vuoto del cosmo. La luce degli astri lo attraversa soltanto. Poi tutto torna immoto, silente. Il lento battito cardiaco che sale da quel vuoto assordante tingendosi di suoni e rumori in loop che condensano nel minuto e più di Speak to me l’intera parabola dell’album è la perfetta introduzione, musicale e simbolicamente esistenziale, di The Dark Side of the Moon, ottava prova in studio dei Pink Floyd, pubblicata il primo marzo del 1973 negli Stati Uniti per Capitol Records, ma in patria solo il 23 dello stesso mese dalla Harvest Records. Dopo le riprese, ai primi d’ottobre del ’71, per il film di Adrian Maben Pink Floyd: Live at Pompei (in cui veniva eseguita in anteprima buona parte di Meddle in uscita il 30 dello stesso mese), la band lavora al nuovo album per quasi un anno dal febbraio del ’72 (inizialmente in contemporanea alle sessions per la colonna sonora  Obscured by Clouds pubblicata il 2 giugno) fino al febbraio ’73, periodo cui risalgono le immagini per la versione del film pompeiano, uscita nelle sale nel 1974, che mostrano i musicisti negli studi di Abbey Road intenti alle ultime sovraincisioni, benché Mason abbia dichiarato trattarsi di prove a beneficio di telecamera non finite sul disco. Con poco meno di 25 milioni di copie vendute in tutto il mondo, l’album rappresenta senza dubbio un vertice non solo nella produzione degli ex studenti di Cambridge, che mettono definitivamente a fuoco un sound esercitato da anni di sperimentazioni, più o meno centrate, seguite alla sempre rimpianta perdita del fondatore Syd Barrett, ma anche per l’intera scena psichedelica e progressiva, che riesce finalmente a uscire dalla nicchia dell’underground. L’impatto nella cultura popolare dell’epoca è dirompente e destinato a durare negli anni, lasciando segni tangibili anche nel campo delle arti visive. La sintesi del collage d’apertura, messo a punto da Nick Mason, è infatti iconicamente rappresentata da una delle più celebri copertine della storia del rock e della grande stagione del vinile che oggi torna a far parlare di sé, sopravvivendo ai colpi inferti dal CD e dallo streaming. La cover pieghevole disegnata da George Hardie dello Studio Hipgnosis dà forma all’intuizione di Storm Thorgerson: una linea di luce attraversa come un laser un campo nero fino a incontrare un prisma triangolare posto nel mezzo che devia e scompone la luce in un arcobaleno che si tende verso il lato opposto. Un’immagine tanto semplice quanto evocativa e misteriosa, declinata in una serie di varianti nell’interno della copertina e negli allegati poster e adesivi, capace da sola di segnare un’epoca. Dal buio inquietante di Speak to Me, man mano che il cuore pulsante si fa più presente, arrivano frasi ambigue di personaggi che dichiarano la propria pazzia “I’ve always been mad, I know I’ve been mad, like the most of us… very hard to explain why you’re mad, even if you’re not mad…“. Sono parole del road manager della band, Chris Adamson, intervistato da Waters, che sul finire delle registrazioni ha l’idea di piazzare interventi parlati sui temi trattati nell’album in vari punti di passaggio. Qui, mentre monta il collage di loop, tra le voci si levano potenti grida femminili che offrono l’aggancio per l’ingresso dell’arpeggio malinconico e la slide decadente di Breathe, che scivola come lucidi riflessi metallici sulle acque calme di un lago al tramonto, retta da un drumming leggero che ha appreso la lezione di Ringo Starr, trapunta dal caldo organo di Wright su cui si adagia la dolce voce di Gilmour, che si chiude in tetra frase calante. E da quell’abisso dell’anima emerge On the Run, strumentale psichedelico per antonomasia, incentrato sulla modulazione ossessiva di un loop filtrato dal sintetizzatore analogico VCS3, acronimo di Voltage Controlled for Studio with 3 Oscillators, con le cui manopole Waters si diverte a giocare (lo si vede nelle citate immagini di Live at Pompei) inseguendo la follia di un viaggio aereo istericamente suicida, messo in scena con tanto di esplosione finale anche negli spettacoli del tour promozionale dell’album, nonché nel tour di Division bell nel 1994, che in alcune tappe vede eseguito per intero The dark side. Un altro collage di sveglie, orologi e pendoli introduce il metronomo esistenziale di Time, scandito dai tamburi di Nick Mason che riverberano world music ante litteram, trovando poi una strofa di gustoso gusto funky rock e droni d’organo. Al centro del brano Gilmour piazza uno dei suoi assoli meglio costruiti di sempre, con un suono saturo di riverbero e bending superbamente calibrati per incidere ferite in un tema in progressiva ascesa acuminata, che sfocia poi in un bagliore accecante dal sapore hendrixiano ma con diverso accento lirico e melodico. E ancora nell’ultimo bridge, le parole disarmanti Hanging on in quiet desperation is the English way accompagnano il tema di rassegnata attesa verso Breathe (Reprise), in cerca di un desiderata ma forse impossibile pace domestica. Tra le quattro mura di una casa di campagna inglese si fa infatti strada il tema della morte, and I am not frightened of dying, any time will do, I don’t mind, dice Gerry O’Driscoll (portiere di Abbey Road), mentre il piano classicamente blues di Wright si inerpica a mirar le stelle del firmamento vocale di The Great Gig in the Sky, i cui tre movimenti sono altrettante costellazioni affidate all’improvvisazione vocale di Clare Torry (chiamata dal produttore Alan Parson e solo anni dopo riconosciuta come co-autrice del brano assieme al pianista) che secondo le indicazioni impartite dalla band scaraventa le viscere al cielo con urla squassanti per poi raccogliere cocci d’astro cadenti e brucianti con sensuale sussurro roots e drammatico desolante pathos. Introdotta da un ennesimo collage di registratori di cassa e monete tintinnanti, Money, scritta dal solo Waters, è un rarissimo esempio di tempo dispari nel rock (se si escludono i tre quarti folk mutuati da valzer), un sette quarti di sapore reggae, anomalo specialmente per i Pink Floyd che hanno fondato il loro repertorio sulla lenta cadenza offerta dai più usuali quattro quarti. Il riff inconfondibile ideato da Waters sul tempo dispari, il fraseggio di basso in semitoni, la contestazione sociale (Money, so they say / Is the root of all evil today), il sax jazz di Dick Parry, l’assolo tiratissimo di Gilmour che costituisce un vero e proprio campionario di stili del chitarrista, tra corde tesissime e incursioni urticanti sui ritmi sincopati, ne fanno una delle pietre miliari della storia del rock. Il commento finale, I don’t know, I was really drunk at the time, è di Henry McCullough, impegnato in quei giorni coi Wings alle incisioni di Red Rose Speedway, le voci di Paul e Linda vengono invece scartate da Waters che non gradisce i loro tentativi di sembrare divertenti, episodio emblematico di personalità agli antipodi. L’arpeggio da lacrime copiose, il pianoforte romantico, il sassofono languido che introducono la lirica Us and Them parrebbero a prima vista confezionate per una sdolcinata canzone d’amore, ma il tema è ben altro. Si guarda ai rapporti tra persone in senso più ampio, all’incomprensione, lo smarrimento, l’egoismo, la violenza che ne scaturisce, sintetizzando in potentissimi versi sulla guerra, Forward he cried, from the rear, and the front rank died / The general sat, and the lines on the map, moved from side to side, quel che a Kubrick ha richiesto l’intero Orizzonti di gloria (film che resta comunque un enorme capolavoro, intendiamoci). All’aggressività del quotidiano fa riferimento la domanda di Waters (che non ascoltiamo) “quando sei stato violento l’ultima volta?” cui risponde nel più morbido dei passaggi strumentali del brano il roadie della band Roger “The Hat” Manifold, commentando un diverbio automobilistico: “if you give ’em a quick short, sharp, shock, they won’t do it again. Dig it?“. Del resto la straripante forza con cui il sax tenore di Parry urla, ulula e si contorce sferrando trombe d’aria che scioglierebbero il petto finanche del più distratto degli ascoltatori, non è altro che la versione musicata del dualismo della natura umana: per tornare a Kubrick è l’equivalente del distintivo di pace e la scritta “born to kill” posti sull’elmetto di Joker in Full metal jacket. La strumentale Any Colour You Like è una meravigliosa improvvisazione cromatica equamente divisa in due parti soliste, quella immaginifica di Wright che gioca sulle cremose modulazioni e sovrapposizioni offerte da splendidi echi, la seconda ritmata da Gilmour su un intreccio di tremulo frizzante funky, condito da break di desiderio ardente. Parti che si fondono infine in  caleidoscopico intreccio approdando allo stralunato arpeggio di chitarra elettrica di Brain Damage, giocato su acidule variazioni sull’accordo di Re maggiore che trovano un impensabile antecedente ne Le tre verità di Lucio Battisti (1971). Inizia qui il confronto a distanza di Waters con l’amico e fondatore del gruppo, Syd Barrett, come non pensare a lui ascoltando il verso iniziale “the lunatic is on the grass” e i conclusivi “and if the band you’re in starts playing different tunes / I’ll see you on the dark side of the moon“, che cuciono il riferimento agli ultimi disastrosi live col chitarrista e l’affinità visionaria e stramba che lo lega idealmente alla scrittura di Roger. Poi, mentre scorre una ninna nanna trasfigurata e surreale di sintetizzatori densi, al tecnico del suono Peter Watts spetta la diabolica risata di passaggio verso l’epilogo Eclipse. Cantilena avvitata intorno al moto ciclico del giro armonico calante, stupore primordiale verso l’immane forza della natura contro la quale l’uomo non può che urlare la propria impotenza:  Everything under the sun is in tune / But the sun is eclipsed by the moon. La musica sfuma e tocca ancora ad O’Driscoll, indifferente al ritorno del ritmo cardiaco che ha dato il via all’album, pronunciare le presaghe parole: there is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark. La cometa passa, bagliore accecante, lunga coda scintillante, il cosmo torna nel buio vuoto, ma quella luce continua a viaggiare.

Credits

Label: Capito Records – Harvest Records – 1973

Line-up: David Gilmour (voce, cori, chitarra, lap steel guitar, pedal steel guitar, sintetizzatore EMS Synthi AKS) – Roger Waters (basso, sintetizzatore EMS VCS3, voce, effetti su nastro) – Richard Wright (organo Hammond, pianoforte, pianoforte elettrico, cori, voce, sintetizzatori Minimoog, EMS VCS3 e EMS Synthy AKS) – Nick Mason (batteria, percussioni, rototoms, effetti sonori e su nastro) – Roger “The Hat” Manifold (voce parlata) – Peter James (battito di piedi, voce parlata) – Clare Torry (voce principale) – Dick Parry (sassofono tenore) – Doris Troy (cori) – Liza Strike (cori) – Lesley Duncan (cori) – Barry St. John (cori)

Tracklist:

    1. Speak to Me
    2. Breathe
    3. On the Run
    4. Time + Breathe (Reprise)
    5. The Great Gig in the Sky
    6. Money
    7. Us and Them
    8. Any Colour You Like
    9. Brain Damage
    10. Eclipse


Link: Sito Ufficiale
Facebook


Ti potrebbe interessare...

Travis_LA_Times_album_cover_artwork_review

L.A. Times – Travis

Succede che trascorrono 25 anni in un soffio e ti ritrovi a fare i conti …

Leave a Reply