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Hendrix, il folk e le cover

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Londra, 16 dicembre 1966, uno sconosciuto chitarrista mancino di Seattle, da poco giunto in città, pubblica un singolo destinato a cambiare il corso della storia della musica. Quel chitarrista è Jimi Hendrix e il singolo è Hey Joe / Stone free.

Chas Chandler, l’ex bassista degli Animals, che lo ha portato in Inghilterra diventando suo manager e produttore, vorrebbe esordire con brani originali, ma Jimi preferisce puntare su una cover, che ottiene così il lato A, quello riservato di norma alle hit radiofoniche. La scelta cade su Hey Joe un brano collaudato nei concerti tenuti a New York nella prima parte dell’anno, il cui autore è il semi sconosciuto folk singer Billy Roberts che ne registra i diritti nel 1962 senza riuscire a incidere la sua versione, che pertanto rimane sconosciuta. Tre anni più tardi la canzone diventa improvvisamente una hit della West Coast, quando i Leaves ne pubblicano la prima incisione nel ’65. A quel punto Roberts cerca di rivendicarne i diritti, scoprendo che la paternità del brano è stata già reclamata da un altro poco noto interprete della scena folk, tale Dino Valenti. È il segno di una circolazione nel sottobosco folk, favorita dal fatto che quella di Roberts è in realtà la rielaborazione di un traditional. Lo sostiene anche Tim Rose, interprete, anch’egli poco noto, di una versione scarna, quasi filologica, che è probabilmente la principale fonte di Hendrix, dato che i due musicisti condividono il palco del Cafè Wha? di New York nell’estate del ’66. La progressione di accordi, anche detta circolo delle quinte in base all’intervallo utilizzato (in questo caso Do/Sol/Re/La/Mi), era già alla base di Baby please don’t go to town scritta nel 1955 da Niela Miller, che l’anno dopo avrà una relazione proprio con Roberts. L’ascolto di quella versione, incisa solo nel ’62, conferma la derivazione da un archetipo tradizionale.

Ma il boom di Hey Joe esploso con i Leaves nel novembre del ’65, non è legato a una riscoperta filologica, bensì a un fenomeno che scuote profondamente la musica nordamericana proprio in quell’anno. La geniale idea di elettrificare il repertorio tradizionale nord americano è dei Byrds, con in mente il trionfo dei Beatles all’Ed Sullivan Show nel febbraio del ’64. La cover di Mr. Tambourine man, incisa a gennaio del ’65 e pubblicata come singolo il 12 aprile, apre la strada a un filone di contaminazione che ben presto condiziona lo stesso autore del brano, Bob Dylan. Il ‘menestrello’ lo incide durante la lavorazione dell’album Another side of Bob Dylan (1964), ma poi lo pubblica solo nel nel marzo del ’65 in Bringing it all back home, dunque i Byrds hanno lavorato su una copia in anteprima, ricevuta in agosto da loro manager.

La versione garage rock di Hey Joe inaugurata dai Leaves deriva da questo passaggio epocale e difatti i Byrds, nell’album Fifth Dimension (1966), si adeguano volentieri a quella versione, ripresa con minime varianti anche dai Love e altri gruppi della West Coast, una versione che diventa oggetto della dissacrante parodia di Frank Zappa in We are only in it for the money (1968), che stravolge del tutto il testo ma tutto sommato è fedele all’arrangiamento (Hey Punk, where you goin’ with that flower in your hand? / Well, I’m goin’ up to Frisco to join a psychedelic band).

Quando giunge a Londra, Hendrix conosce di certo il repertorio di Dylan, Byrds e Love, ma si approccia ad Hey Joe in maniera del tutto diversa, ripartendo dall’archetipo lo rallenta al ritmo di una ballata western, resa ancor più evocativa da un coro femminile che ricalca il giro armonico e un lavoro epico di Mitch Mitchell sui timpani. Senza le distorsioni che lo hanno reso famoso Jimi mette in campo una delicatezza di rado associata al suo nome. Dopo un intro che amplia e capovolge in una frase calante quella di Niela Miller affida a una morbida pennata soul la parte ritmica e le coloriture a brevi e affilati commenti. Lo stesso assolo centrale gioca sui raddoppi di note e sull’intensità del vibrato, con una pulizia e una classe viste allora forse solo in George Harrison, senza sbavature, senza trucchi, senza strafare.

Tutt’altra atmosfera si respira nel lato B del singolo: Stone free è un rithm’n’blues inquietante che ondeggia tra un riff claustrofobico di note stoppate su un campanaccio ossessivo e un refrain degno dell’Otis Redding più tirato (gotta, gotta gotta), con un assolo infuocato fatto di magma e lapilli che si attaccano ardenti alla pelle di chi ascolta.

Un anno dopo Hendrix chiude l’esperienza londinese così come l’aveva cominciata, confrontandosi con il folk: il 21 gennaio del ’68 registra una cover indiavolata di All along the watchtower di Bob Dylan, pubblicata appena il 27 dicembre negli USA nell’album John Wesley Harding, distribuito in Inghilterra solo il 23 febbraio seguente (Hendrix, come i Byrds prima di lui, conosceva il brano grazie a un nastro ricevuto da Michael Goldstein, dell’entourage del manager di Dylan). Qui l’approccio delicato e rispettoso tenuto per l’incisione di Hey Joe, lascia spazio a un totale stravolgimento dell’originale, di cui si conserva solo la sequenza di accordi e il tempo della batteria. Sparisce quel senso di desolazione drammatico, accentuato dal fischio lancinante dell’armonica, spazzato via da un arrangiamento corposo e mutevole, arricchito dalla collaborazione di Dave Mason dei Traffic alla 12 corde. Un palcoscenico sul quale va in scena un intero campionario di stili, dalla chitarra tagliente e pulita dal timbro eroico alle pentatoniche frantumate nei colori psichedelici del wah-wah, dai lenti glissati di distorsioni siderali alle dinamiche ritmiche che preludono al funky, fino alle ossessioni fantascientifiche di singole note che rimbalzano tra i canali stereo.

È un addio in grande stile e allo stesso tempo il definitivo ritorno a casa. Dopo aver omaggiato Dylan con la calorosa esecuzione di Like a rolling stone al Festival di Monterey, ora Hendrix decide di piazzare l’affondo decisivo diventando di fatto il leader della scena americana in chiusura del decennio. Lo ammette implicitamente lo stesso Dylan modificando significativamente l’arrangiamento della sua canzone nei live dal ’68 ad oggi.

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