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D’amore e d’anarchia: intervista a Alessio Lega

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Occhiali neri ben saldi sul naso, occhi vivi e intelligenti dietro le lenti, sorriso ironico a chiuder le rime mentre tiene stretta la chitarra. Alessio Lega è un cantautore di Lecce trapiantato a Milano che canta, da più di dieci anni, d’amore, d’anarchia e d’altre faccende terrene. La storia gira, i cuori s’affannano e succede che qualcheduno ne canti gli echi e ne disarmi le ipocrisie.
Uno scambio con Alessio Lega, breve ma preziosissimo, per presentare il suo ultimo disco Mare nero uscito quest’anno.

Da dove viene questo mare nero?
Dalla “Hard rain”, la dura pioggia, che cadeva nelle canzoni di Dylan, mischiata al fango della strada, al riflesso delle bandiere anarchiche, alla tenebra dei nostri animi, all’eco della canzone di Battisti. È un mare piuttosto composito in effetti.

Hanno detto spesso che la tua musica è “anacronistica”, ti senti davvero fuori dal tempo?
Fuori dal tempo, ma non dal suo ritmo.

Anche la copertina richiama gli anni Settanta…
In realtà richiama un attimo prima degli anni Settanta: è ispirata a un manifesto del maggio del ‘68 a Parigi. Mi pare curioso lo stupore che desta, visto che viviamo immersi in un’estetica “vintage”, se penso alle copertine di Brunori SAS e dei Baustelle – colleghi molto presenti e terribilmente cool – vedo immagini altrettanto anni Settanta. Solo che a me, di quel passato, non interessa solo l’estetica ma anche l’etica: gioia e rivoluzione, arte e vita, sesso e carnazza.

Qual è l’idea forte e preponderante che regge questo disco?
Per la prima volta, dopo sette dischi e mezzo, non avevo un’idea forte e preponderante – né tematica né musicale – ma “solo” un’insieme di canzoni che mi sembravano delle buone canzoni, altrettanto degne delle altre di trovar posto in un disco. Non abbiamo provato a renderle omogenee, ma abbiamo lasciato che ognuna prendesse la sua strada sonora. Insomma l’idea di questo disco è la varietà, questo in fondo siamo noi: “artisti di varietà”.

Le tue idee politiche riescono a vivere bene dentro le tue canzoni?
Le mie canzoni sono storie, racconti, narrazioni… le cose che mi accadono, mi toccano, mi commuovono mi spingono talvolta a cantare. E questa credo che sia già un’idea politica del canto.

Le tue sono quasi poesie manifesto… come riesci a farle concertare con la musica?
Ci sono riusciti in maniera eccelsa Léo Ferré, Bertolt Brecht, Fabrizio de André… magari un po’ meno bene di loro, ma provo a seguire quella strada di rigore e fede.

Perché è importante riprendere in mano e riscoprire la musica popolare?
Perché è la fonte primaria e cristallina… vedi, credo che di bravi autori ce ne potranno ancora essere, ma di cantori popolari, totalmente coerenti con il loro contesto, come Matteo Salvatore, Blind Lemmon Jefferson, Jeannette Maquignon… ecco, di quelli non ce ne saranno più. Alla musica popolare affido il ruolo di salvazione ed equilibrio: ce l’hanno lasciata i nostri “genitori archetipici”, come testimonianza di equilibrio fra arte e vita, individui e collettività.

Progetti musicali all’orizzonte?
In ordine di compiutezza: un disco/libro (in gran parte già pronto) sulle canzoni cantate in italiano del bardo russo Bulat Okudzava. Un libro biografico su Ivan Della Mea. Un seguito discografico al mio spettacolo sulle canzoni di Franco Fortini. Come puoi capire progetti totalmente mainstream!

Come ne usciremo da questo “inferno bello mosso”?
Non ne usciremo, dunque tocca provare a cambiarlo.

Ambaradan – video

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