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Sleep Well Beast – The National

recensione_thenational-sleepwellbeast_IMG_201709Ho pensato a lungo se e come scrivere di questo disco.
Io sono una fan dei National. Sono la band che più di ogni altra sta accompagnando i miei anni da adulta. Amo il loro approccio alla musica, i loro testi, la voce profonda di Matt Berninger che scalda il cuore. Hanno fatto parte di tanti miei traslochi, fisici, e non so più nemmeno quanti emotivi. Hanno asciugato le mie lacrime e mi hanno regalato molti dei miei sorrisi più belli. Mi hanno dato la forza e hanno ispirato molte scelte e salti nel buio. Perché la musica ha anche questo potere. Perché la loro musica per me ha questo potere. E so che in molti di voi li sentono allo stesso modo, negli anni ne ho ricevuto diverse testimonianze.
Quindi tolgo ogni maschera e dico chiaramente che questo è il mio stato d’animo di partenza.
Dopo qualche anno di assenza non sapevo cosa aspettarmi, anche se avevo grande fiducia, e sono stata felice di ascoltare un disco bellissimo. Posso raccontarlo senza timore di essere condizionata dall’affetto e dal cuore, quel cuore che riescono sempre a strapparci dal petto, e ancora di più in questo ultimo capitolo artistico.
Sleep Well Beast è il loro settimo attesissimo album, uscito per la 4AD, arrivato a quattro anni di distanza da Trouble Will Find Me. Nel frattempo i vari componenti della band non sono stati di certo con le mani in mano, e hanno dato sfogo alla loro creatività in diversi progetti, tra gli scanzonati EL VY, una sorta di liberazione per Matt Berninger che ha potuto mostrare la sua natura più ridicola (e che non smetterò mai di ringraziare), sperimentazioni con i LNZNDRF per Scott e Bryan Devendorf, l’approccio classico per Bryce Dessner, insieme a colonne sonore (The Revenant) e festival, e le diverse produzioni del fratello Aaron.
Tutte queste esperienze alla fine hanno finito per influenzare il nuovo lavoro.
Ciò che i National sono stati fin qui viene amplificato, viene messo sotto una lente d’ingrandimento.
Avevano bisogno di tempo, di distanza. Prendere aria e allontanarsi per un po’ ha fatto loro bene.
Si tratta di cinque uomini adulti, ormai tutti con famiglia e figli, che attraverso percorsi interiori diversi e comuni si trovano riappacificati, come individui e come gruppo.
Partiamo dalla copertina del disco: raffigura il Long Pond studio, in Hudson Valley, campagna a nord di New York, ideato da Aaron, dove la band di Cincinnati si è ritrovata insieme a registrare, a condividere i momenti creativi, riflessivi, e la pace del lago, dove, racconta Bryce Dessner in un’intervista, Matt cantava sempre, e dove i nostri  hanno messo a dormire la bestia. Quella bestia che tutti abbiamo dentro, che mina continuamente i nostri equilibri e i nostri rapporti, spesso portandoci all’autodistruzione.
Rapporti di qualunque natura, che sia il matrimonio, la convivenza tra componenti di una band, o politici. I National non hanno mai nascosto la loro partecipazione politica, e in particolare in questi anni non nascondono il loro timore per l’America e il mondo e la poca simpatia nei confronti di Trump (che riconosciamo nel brano non a caso più frenetico del disco, Turtleneck). Ogni canzone può essere sentimentale e politica al tempo stesso, dice Matt, perché amore e rispetto sono la base di tutto. Riesce a mostrarci i fragili equilibri, sempre pronti a spezzarsi, dell’essere umano, come solo lui sa fare. Vengono raccontati rapporti di coppia, paure, delusione e perdita di fiducia nei confronti di una società che sta andando alla deriva e nei confronti della quale ci si sente impotenti, la necessità di stordirsi con erba, vodka o con un bicchiere di vino, ogni tanto; senza retorica e in modo assolutamente poetico. Nonostante tutto si avverte la voglia di lottare per dare a se stessi e ai propri figli qualcosa di meglio. I testi sono stati scritti da Matt insieme alla moglie Carin Besser, la quale ha portato grande equilibrio all’insieme, e che viene definita scherzosamente dai componenti del gruppo “l’Oracolo”.
Sono nate liriche struggenti, a cominciare da Nobody Else Will Be There, prima del disco e prima lama nel cuore, con quel suo manifestarsi piano e quella voce sofferente che si mette a nudo. Fino a Carin At The Liquor Store, Born To Beg (“I was born to beg for you”), o Empire Line, un treno pendolare veloce, che deve essere stato familiare ai membri della band durante i loro spostamenti al Long Pond studio; la distanza della linea ferroviaria è la metafora per la distanza crescente in una relazione di lunga data. O ancora Dark Side Of The Gym, frase presa in prestito da un verso di una canzone dell’amato Leonard Cohen e che lo ricorda in quella capacità di evocare immagini e storie: vedo una donna e un uomo in impermeabile, magari di spalle, su una strada. E Matt potrebbe essere un giovane Cohen in impermeabile, ripensandolo anche nel video di Bloodbuzz Ohio di qualche anno fa.
La malinconica Guilty Party, con la sua intro alla Radiohead, è un suicidio romantico, per il testo, il tono di sconfitta, e per quel pianoforte che entra a metà brano a dare il colpo di grazia.
L’urlo disperato di Day I Die, canzone perfetta e tra le più movimentate; la sezione ritmica dei fratelli Devendorf è sempre impeccabile e i gemelli Dessner sono ormai i maghi del suono della band.
La novità di questo album, che inizialmente ha spiazzato per poi diventare la cifra stilistica che lo ha reso così grande, è stata l’aggiunta, insieme al rock a cui ci hanno abituato, dell’elettronica. Vengono introdotti effetti, synth, campioni, persino musica classica, che però da esperti musicisti quali sono riescono a dosare, restano discreti, riescono ad arricchire il disco, a segnare la svolta sperimentale del gruppo senza snaturarlo affatto. Ci sono cori femminili, che io non ritenevo necessari perché la voce di Matt è bella così, venendo ampiamente smentita. Tutto è equilibrato, tutto è elegante. I pezzi appaiono diversi tra loro, sono meno “costruiti” rispetto al passato, c’è più libertà e voglia di riportare quel fervore che hanno nei live.
Ancora Sistem Only Dream In Total Darkness, primo singolo, e in chiusura la traccia che dà il titolo all’album, Sleep Well Beast. La bestia che viene tenuta a bada, che viene messa a dormire per darci respiro dagli affanni, dalle paure interiori e nei confronti di un sistema malato, con la consapevolezza che sarà pronta a sbranarci di nuovo, portandoci a fare cose orribili, ma con la quale non si può fare altro che imparare a convivere (I’ll Still Destroy You).
E’ un disco commovente, di spessore e intensità: è incredibile il carico di emozioni che riesce a trasmettere. Disco di una veridicità e di una onestà spiazzanti. E’ questo che lo rende immenso. La parte strumentale, poi, mai come adesso, riesce a parafrasare tutto quello che viene detto da Matt.
Dopo 15 anni di canzoni bellissime e di serio lavoro, Sleep Well Beast li consacra una volta per tutte tra i grandi della nostra epoca.
Chiudo con una frase che annovero tra quelle che potrei tatuarmi, tratta da Walk It Back: “I try to save it for a rainy day, it’s raining all the time”.
Vi aspettavamo National. E in che grande stile siete tornati! Firmato una ragazza che vi vuole bene e vi dice semplicemente… grazie.

Credits

Label: 4AD – 2017

Line-up: Matt Berninger (voce) – Aaron Dessner (chitarra elettrica, basso e piano) – Bryce Dessner (chitarra elettrica) – Scott Devendorf (chitarra elettrica e basso) – Bryan Devendorf (batteria)

Tracklist:

  1. Nobody Else Will Be There
  2. Day I Die
  3. Walk It Back
  4. The System Only Dreams In Total Darkness
  5. Born To Beg
  6. Turtleneck
  7. Empire Line
  8. I’ll Still Destroy You
  9. Guilty Party
  10. Carin At The Liquor Store
  11. Dark Side Of The Gym
  12. Sleep Well Beast

Link: Sito Ufficiale, Facebook

Sleep well Beast – streaming

The day I die – video

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