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E forse proveremo a cominciare dalle cose che non so dove portare: intervista ad A. Raina (Amor Fou)

Un disco. Undici canzoni. Parole. Note. E poi altro, ma tra le trame, nel retrogusto. Amor Fou e La stagione del cannibale ovvero la musica al centro e il gioco delle evocazioni e dei rimandi cinematografici e letterari non sfacciati, non dichiarati fino alla didascalia. Paralleli piani di lettura per chi vuole, può o sa cogliere. Prioritaria una lettura d’orecchio: atmosfere pop tra linee di colori acustici e sfumature d’elettronica ordita con misura ed eleganza, una scrittura che raccoglie le lezioni della tradizione cantautorale e le spinge fino al fascino del gusto dell’equilibrio tra la poesia dell’intensità e i soffi della leggerezza.
Un disco. Undici canzoni. Un racconto che la musica fa vedere: la storia dell’amor fou tra Adele H. e Paolo M. annegata nel sangue della strage di Piazza Fontana.
La Storia e l’egoismo dell’amore fatto di uomini e donne persi nel bianco e nero dei ricordi. LostHighways libera la curiosità e incrocia le parole di Alessandro Raina. (Foto by Mario Petrillo)

Amor Fou, semplicemente il nome di una band e (per chi coglie) non solo. Mi racconti il motivo di questa scelta?
I motivi sono tanti e nessuno. Banalmente potrei dirti che l’amour fou è un marchio di fabbrica della mia vita sentimentale, visto che me lo sono persino tatuato su un braccio oppure che è una dichiarazione di intenti, un modo per chiarire di cosa parliamo e a che livello ne parliamo. Senza dimenticare che un nome deve anche essere un marchio, essere suggestivo anche graficamente, suonare bene… Con tutto ciò a qualcuno sembrerà semplicemente un nome un po’ snob.

Amor Fou ovvero quattro grandi musicisti dal passato consistente: Alessandro Raina (Giardini di Mirò, N00rda), Cesare Malfatti (La Crus), Leziero Rescigno (La Crus, Soul Mio), Luca Saporiti (Lagash); la dimensione live vede un quinto elemento: Giuliano Dottori. Come si è innescata questa sinergia e che linee ha seguito?
Grazie per il “grandi” ma mi sa che l’unico grande (di statura) è Lagash, Giuliano ha collaborato con me e Leziero in alcune date del mio tour solista nel 2007 ed essendo un chitarrista versatile ci è sembrato opportuno coinvolgerlo in Amor Fou, visto che Cesare è un chitarrista un po’ anomalo, molto discreto, e sentivamo l’esigenza di dare al live un suono più chitarristico rispetto all’album, una scelta consolidatasi concerto dopo concerto, al punto che anch’io ormai suono la chitarra in quasi tutti i brani.

Tradizione cantautorale, elettronica sofisticata eppure lieve nel sapore, venature acustiche… il tutto sulla scia del pop che sa bagnarsi di rock, soprattutto nella dimensione live…
Esatto, come detto sopra il live è stato un capitolo in qualche modo slegato dal disco, che è stato concepito totalmente in studio e mai suonato dalla band al completo se non a ridosso dei concerti, il che lo ha reso sicuramente più curato dal punto di vista della produzione ma al contempo anche meno viscerale. Abbiamo re-imparato le canzoni e le abbiamo fatte vivere in una dimensione più “umana”. Tuttavia l’elettronica ti condiziona sempre moltissimo anche sul palco, ed è una lezione che terremo ben presente in fase di scrittura del prossimo disco.

La stagione del cannibale è il disco con cui gli Amor Fou hanno “esordito”. Un titolo che racconta un senso tra proiezioni politiche, sociali, culturali di un passato tragico…
E’ vero, a patto di avere sempre ben chiaro che la cronaca, la storia, non si narrano con le canzoni di tre minuti. Al massimo si allude, ed è difficile, è difficile provare a conservare il riverbero di un’epoca sullo sfondo di una canzone, che parla quasi sempre delle tre o quattro cose che ci attanagliano. Anche ne Un ragazzino appicca il fuoco o in Ore 10: parla un misogino c’è una connotazione che esula dai sentimenti e vira verso il moralismo. Ma il nostro disco è uno spunto, un suggerimento, un invito a rallentare. Se l’emozione di una canzone servisse a stimolare una serie di riflessioni saremmo sulla strada buona. Ma se tutto ciò di cui parliamo si esaurisse nelle canzoni avremmo fallito miseramente.

Quel passato come fa leggere il presente? La nostra società sa correre quel rischio che Pasolini ha racchiuso in poche parole: la passione non ottiene mai il perdono?
E’ evidente che nella poetica del disco è sotteso un grande rammarico nel poter essere testimoni impotenti di un’epoca perduta, che continua a parlarci attraverso tonnellate di testimonianze (libri, film, cronache…) che la tv non ha distrutto e che il liberismo non ha ancora messo all’indice. Ma c’è anche un sottile filo di speranza implicita nel dichiarare da che parte si sta, non politicamente, ma eticamente. La nostra società è spacciata e non so dirti se e come invertirà la rotta. Probabilmente si assisterà, come sempre nella storia, ad un grande ribaltamento culturale in cui nuove civiltà prenderanno il posto di altre che non hanno saputo sviluppare una cultura “forte” (il che non significa necessariamente “migliore”), rompendo definitivamente i legami con il proprio passato.
La nostra società non si pone il problema della passione, la normalizza e la rivende. Pasolini era un opinion leader, anche e soprattutto perchè parlava una lingua trasversale, comprensibile all’intellighenzia quanto al popolo. Oggi quel ruolo è affidato a Fabio Volo, il che significa che il “codice” è quello. I passionali sono buoni per qualche ora, poi si torna tutti al proprio posto. Trai tu le conclusioni.

Un disco che evoca uno specifico periodo storico con le sue atrocità ma avendo al centro un sentimento: l’amore. La Storia (ma di spalle) e la storia dell’amor fou di Adele H e Paolo M. Quest’approccio scatena un gioco di rimandi cinematografici e letterari. Il fascino del vostro progetto sta nella fruizione a più livelli: si può cogliere, e si può anche solo godere di ottime canzoni che accarezzano l’eleganza, il buon gusto, la misura ma sanno (sapientemente) evitare ogni banalità…
Verissimo! Ho sempre pensato che una canzone, una poesia, un film, possano prevedere molteplici livelli di lettura ma che l’opera non debba mai perdere la propria purezza in funzione di secondi o terzi fini “contenutistici”. Se siamo riusciti a preservare questo equilibrio è già moltissimo e i maestri di cui ci nutriamo ci sono sicuramente riusciti.

I testi. Sono d’orecchio e d’occhi, voglio dire che hanno struttura lirica… esistono in autonomia e ardono con le note, poi. Qualcuno ti è più caro di altri?
Forse L’anno luce, che è un po’ il manifesto del disco ed è una lirica che credo possa “stare in piedi” anche a prescindere dalla musica, palesando la dimensione vissuta dalla voce narrante. Giuliano l’ha definito un teso “allusivo” e mi pare una definizione efficace. O forse mi è più cara perché quando l’ho riletta ho avuto la conferma definitiva di non essere più un ragazzino e di riuscire a calarmi completamente nei panni di un uomo che ha vissuto ed ha il coraggio di esibire la propria sconfitta.

L’importanza della comunicazione improntata ad un doppio codice, musicale e visivo. Due costole degli Amor Fou (tu e L. Rescigno) sono state impegnate in alcune date che hanno avuto la veste di una sonorizzazione di un film (ovvero un collage ispirato al disco) firmato dalla regia di Paolo Santagostino. Mi racconti quest’esperienza/esigenza/urgenza?
C’è da sempre, in me e Leziero, il desiderio di avvicinarci sempre di più ad un connubio con un’arte –il cinema- che sa ancora sintetizzare tonnellate di informazioni e immagini, fermandole per sempre sulla pellicola. Adoriamo alcuni registi ed attori, come Toni Servillo, Totò, Eduardo, Sorrentino, Elio Petri, Jeanne Moreau, Francesco Rosi, Marco Ferreri, Matteo Garrone, Charlotte Gainsbourg, Mastroianni… ci nutriamo del loro immaginario e del loro sguardo. Paolo Santagostino è un documentarista con una grandissima cultura di repertorio e una visione quasi retrò della cinematografia. E’ un cultore del cinema di stile così come della cronaca ed ha saputo calarsi perfettamente nella dimensione che cercavamo di tradurre con parole e musica. Purtroppo non siamo ancora riusciti a dare continuità a un progetto che tuttavia verrà ripreso e sviluppato in pieno, e spero ci conduca a realizzare del materiale visivo inedito sulla scia delle proiezioni già realizzate da Paolo.

Solleticando lo stesso tema, ti chiedo di raccontarmi il tipo di ricerca estetica alla base del video del primo singolo, Il periodo ipotetico…
Trattandosi del primo video ci siamo lasciati guidare dalla sensibilità del regista, il giovane e bravo Pippo Mezzapesa, di cui apprezzavamo molto la capacità di trattare gli attori in modo “verista”, esaltandone il lato umano/popolare in senso evocativo. Per questo abbiamo scelto di recarci a Bari, nella sua terra, per dargli modo di esprimere totalmente l’immaginario che la canzone gli suggeriva. Il risultato credo sia un tentativo di esaltare il simbolismo dei luoghi e gli archetipi dell’amore (il cuore sacro, l’idillio, la nudità dei corpi…) piuttosto che di raccontare una storia come abbiamo fatto nel video successivo.

Ci sono delle differenze di semantica visiva nel video di Se un ragazzino appicca il fuoco, nuovo singolo? La regia è di Lorenzo Vignolo e tu hai contribuito alla stesura del soggetto…
Questo video è un piccolo film, girato per la prima volta nella nostra carriera con veri attori presi dal cinema e una troupe di trenta elementi riuniti in una magnifica e decadente villa ottocentesca. E’ una storia che spero risulti leggibile, di ribellione giovanile ad un ordine pre-costituito e gonfio di ipocrisie e vessazioni psicologiche. Ci siamo liberamente ispirati a Teorema così come a certe esasperazioni del cinema di Fassbinder e di Herzog, ben consapevoli che si trattava di un video promozionale destinato alla televisione, ossia a Mtv e All Music. Siamo molto contenti e orgogliosi dell’esperienza fatta con Lorenzo, e credo che sia reciproco. Così come attraverso il disco anche con questo video abbiamo scelto di investire molto al fine di dare un segnale forte sia al livello di immaginario che di qualità complessiva.

Milano ha avuto un ruolo di primo piano tra la fine degli ‘80 e gli anni ‘90, svecchiando certi stilemi e definendo una scena musicale. Poi? Come sta adesso?
Un tempo è stata la culla dell’imprenditoria più vivace d’Italia, così come di artisti e fermenti popolari potentissimi. Gli anni ’80 l’hanno rasa al suolo. L’ansia di modernizzarsi senza fatica, senza investimenti illuminati l’hanno portata a diventare un non luogo, un enorme contenitore di broker finanziari, aspiranti stelline, giovani debosciati e ricchi, operatori di call center ed extracomunitari.
Le isole felici della città sono poche, nascoste e soprattutto non comunicano.
In termini di squallore, individualismo becero, qualunquismo, secolarizzazione, isteria, fotoritocco… Milano non ha davvero nulla da invidiare a nessun’altra città del mondo. E’ la città della moda, o meglio, delle mode, ossia la città che copia il resto del mondo 24 ore al giorno 365 giorni l’anno senza mai produrre alcunchè di originale, a parte i call center o i locali per l’aperitivo. E’ una città senz’anima, dove gli affitti sono carissimi e irregolari, dove gli stagisti non vengono pagati ma si venderebbero la madre pur di non perdere il posto nell’ufficio stampa xyz… ed è tante altre cosette.
In questa città si sente tanto parlare di “creatività”. Ma ancora non ho trovato qualcuno capace di citarmi cinque artisti (musicisti, designer, pittori, scultori..qualsiasi cosa) cresciuti ed “esplosi” a Milano e rappresentativi di questa città. E’ impossibile, e non si riuscirebbe nemmeno a tirare fuori un dj! Perchè a Milano, dove tutti fanno i dj, ossia i selecter, non si riesce a produrre un nome di portata internazionale da secoli, come accade a volte in provincia (penso al successo ormai mondiale dei veneti Bloody Beetroots) e periodicamente in Germania, in Francia, in Nord Europa, e non solo in Uk. Sai perchè? Perchè il dj milanese prima inventa il nome e il dress code della sua nuova “one night” e poi impara a mixare. O non impara mai, tanto ci sono i mix da scaricare.
Con tutto questo Milano è il luogo dove, mettendo in pratica una sorta di resistenza basata su uno strano amore e molte delusioni, trovo un’ispirazione che forse altrove non avrei. Anche se il prezzo sono piccole grandi ansie, tanto stress e pochi soldi in tasca.

La rete. Si sprecano fino alla noia le “opinioni” sulla libertà o sulle chiusure di questo strumento di comunicazione, forse democratico… forse abusato. Ovvio che la differenza può farla solo una modalità d’utenza corretta. Ha esasperato il cattivo gusto delle persone regalando un presunto diritto di rompere gli argini nell’interazione? Penso anche al canale MySpace, sia in generale che nel caso specifico della diffusione della musica: è un’arma a doppio taglio, fa emergere e sommerge… intasando…
Appunto. La differenza la fanno sempre una buona dose di buon senso e di buon gusto.
Purtroppo non tutti la pensano così e MySpace o qualsiasi altra cosa si trasforma in un giocattolo facilissimo da strumentalizzare. E non c’è censura che tenga se non la nostra capacità di riconoscere l’arte in mezzo al dilettantismo e alla merda. Il fenomeno MySpace altro non è che l’ennesima prova che pochi accettano che la possibilità di utilizzare un mezzo non renda obbligatorio utilizzarlo e diventarne ostaggio. Segue bombardamento di nuovi progetti di bassissima qualità artistica, perfettamente ideati e confezionati ad uso e consumo dell’utente MySpace, al di là dei generi, delle influenze e della lingua adottata, veicolati grazie a paraculaggini varie ed eventuali.
E dei relativi “lookalike” ossia milioni di ragazzi e ragazze che in mezz’ora si costruiscono una personalità, un ruolo, nella community e si rilanciano “sul mercato” sotto quella veste, con un nomignolo e un’attitudine presa un po’ qua un po’ là. Timidezza, complessi, sindrome di Peter Pan, edonismo spiegano molto ma non tutto. Con queste persone ci dialogo quotidianamente, e spesso il dialogo si riduce a due righe, per poi esaurirsi da sé, anche perché raramente queste persone consocono altro dalla prima persona singolare. Walter Veltroni e il Papa denunciano un inquietante delirio dell’io e hanno ragione.
Ci sono anche tanti progetti belli, interessanti, fertili, che su MySpace trovano una delle tante finestre medianiche. Ma qualitativamente i progetti degni di nota si contano sempre sulle dita di una mano e questo credo sia diretta conseguenza del fatto che oggi sia scandalosamente facile pubblicare un disco e conquistarsi una microfetta di attenzione, in un’epoca in cui chiunque può, con le mosse giuste, inventarsi musicista o giornalista o promoter o pr o dj o tutte le cose insieme. Se hai le pezze al culo basta un po’ di photoshop e nessuno si risentirà del fatto che suoni tanto perché suoni gratis o che alla fine ai tuoi concerti ci sono sì e no 40 persone.
E’ ovvio che se il consumatore non accettasse tutto questo le cose andrebbero diversamente, ma al consumatore va bene e allora musica maestro. In mezzo a tanto rumore per nulla si registrano però -grazie al cielo- anche le conferme di quei progetti che, grazie a radici solide, capacità reali e approccio sano, si distinguono ora così come svettavano quando l’underground era tale e c’erano meno scorciatoie disponibili. Anche se diventa sempre più difficile “lottare” su più fronti, e con così tanta concorrenza ad intasare e intiepidire le passioni di chi poi dovrebbe innamorarsi della nostra musica e darci un motivo in più per continuare a suonarla.

Se un ragazzino appicca il fuoco – Video


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