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In fuga dalla carovana dei cortigiani, intervista a Paolo Benvegnù

Benvegnù intervista

Le conversazioni, quelle belle. Le occasioni commoventi di incontrare, tangendole, le curve perfette della personalità di un intellettuale, artista e poeta, oltre che gradevolissimo essere umano. Gente, questo è Paolo Benvegnù. Ho avuto la sorte di incrociarlo varie volte nella mia vita, in posti strani ed impensabili, in cornici spigolose come in valli ovattate, ed ogni contatto, ogni singola parola, ha iniettato gocce di bellezza in un circolo venoso, molto spesso ristretto e che lo ha sin da subito posto nell’Olimpo dei riferimenti da difendere e da diffondere. Dal 1999 ad oggi ho osservato reciprocamente i capelli ingrigire e la rabbia ingentilire, senza che la coerenza della sua produzione artistica ne facesse mai le spese. E allora aria buona, come quella ricevuta nei polmoni da una canna di bambù che emerge dalle acque stagnanti di questa Italia pornografica, con questo 2024 che si apre con la pubblicazione di È inutile parlare d’amore, un disco di straordinaria profondità e delicatezza, nono album in studio e che ci consegna l’ex frontman degli Scisma in stato di grazia, avvolto nella comfort zone de I Benvegnù, la schiera di musicisti di primo ordine che ormai da anni costituisce il completamento di un quadro multidimensionale e riconoscibilissimo.

Al di là dell’emozione di questa chiacchierata, inizio con un bentornato, anche se in fondo poi ci siamo lasciati non troppo tempo fa, nel senso che avevi già apparecchiato la tavola con Solo fiori, un EP bellissimo, ma inevitabilmente troppo breve per chi ha sete di vino e di ambrosia, che poi è quello che da quasi 30 anni rappresentano i tuoi lavori. Quindi, senza piaggeria, davvero grazie per il tuo tempo e soprattutto per come hai reso molte volte migliore il mio e quello di altri. Questo prologo è un mio personale e sentito ringraziamento.
Non ti rendi conto del conforto che dai a un uomo che non ha alcun senso, ti ringrazio tanto, ma veramente sei tu che mi dai conforto. Per quello che ti posso dire, credimi, magari fosse Vino e Ambrosia, io non ambisco neanche a quello, semplicemente ambisco alla comprensione delle cose, cosa che normalmente non mi è data, perciò ti ringrazio, perché è proprio nel mio pormi delle domande che mi arrivano risposte, ad esempio oggi quello che mi hai detto tu mi conforta, appunto. Vuol dire che la ricerca che con i miei compagni abbiamo fatto ha avuto un piccolo senso, che per me è un grande senso.

Ho avuto il piacere di incontrarti da vicino varie volte, l’ultima qui a Napoli quando sei venuto con Niccolò Fabi al Museo Archeologico ad Aprile 2017.
Che bello che fu, mamma mia.

Quella fu davvero una bellissima situazione, pensata e strutturata in maniera impeccabile a dire il vero. La prima volta invece è un po’ più datata e parliamo del 1999 con gli Scisma all’Arenile, in una serata clamorosa con gli Interno 17 ed i Marlene Kuntz, davvero uno spettacolo meraviglioso.
Ma certo che mi ricordo, eravamo a Bagnoli, giusto?

A Bagnoli, esattamente. Era un meraviglioso giugno del ‘99.
Mi ricordo, io volevo tirar via la corrente ai Marlene Kuntz, che erano troppo bravi… ad un certo punto ho detto a Cristiano: “non soltanto sei fantastico, ma sei anche bello”. Sai l’invidia è una brutta bestia! (ride, ndr).

Perdersi e ritrovarsi nella tua musica è come aprire una finestra di ossigeno nelle giornate grigie, soprattutto per chi, come me, fa un lavoro molto più arido. Parlarti oggi è la finestra sul mondo che mi sono ritagliato.
Questa è una cosa che ci è accomunerà tra pochissimo. Anch’io per riuscire a permettermi di poter scrivere canzoni brutte dovrò fare questa cosa di avere un lavoro un po’ più arido (ride, ndr), però la cosa importante è che, sia io che te, siamo ancora in grado di guardare il cielo, cosa che io per tanti anni non sono mai riuscito neanche a osare di fare, perciò ritengo che questa sia un bene veramente importante.

Una volta ci siamo visti al Tora! Tora! Festival sulle montagne di Castelnovo ne’ monti, nell’Appennino reggiano, nel 2004. E ricordo che avevi uno splendido completo di lino…
Che era grande, che era enorme. Era bellissimo però, era bellissimo. Perché volevo fare come David Byrne, solo che lui aveva quello stretto e quello largo, io avevo soltanto quello largo, perché a Prato costavano poco i vestiti larghi. Sì, Castelnovo ne’ Monti, certo, lo ricordo benissimo. Fu una bella giornata piena di creatività, una cosa bellissima.

Passiamo al disco! È inutile parlare d’amore. Sembra una sentenza spietata, quasi un sipario su tutto quello che poi nell’immaginario collettivo rappresenta un rifugio, l’amore. Non parlarne è forse un modo per non dare in pasto agli altri l’unica azione realmente rivoluzionaria che ci è rimasta ovvero provare amore?
Hai colto esattamente. Questo è un titolo ossimorico. Il senso è che bisogna parlarne, bisogna praticarlo, bisogna uscire dall’io per entrare nel noi. Una relazione che sia a due, a tre, a cinque, una relazione uomo-natura, una relazione pietra-albero, io desidero un futuro del genere. Però c’è anche questo, il fatto di riuscire a intercettare l’irrazionale dell’altro, spesse volte non dicibile. Se anche l’amore fosse ridotto, come adesso, all’utile, nel senso proprio dell’utile, di che cosa mi è utile, che cosa ci guadagno ad avere una relazione?

Un senso del pensiero molto americano…
Esatto, siamo stati colonizzati, siamo neo-americani, neo-egiziani, perché il culto dell’occhio è quello. Tutto si dovrebbe muovere intimamente nel tentativo di intercettare l’irrazionale dell’altro. Se non c’è presupposto, allora non riesci prima di tutto ad intercettare l’irrazionale in te, solo l’amore ti fa riconoscere questo; poi cerchi di intercettare l’irrazionale dell’altro e così si innesca un discorso di relazione. Se questo meccanismo riuscisse ad attivarsi all’interno del genere umano in questo pianeta, molto probabilmente saremmo molto più attenti alle folate di vento che fanno danzare gli alberi piuttosto che alle azioni della Pampers! Secondo me è necessario badare più alla bellezza, alla follia delle cose, al vento che scosta gli alberi, ai movimenti carsici di alcuni fiumi. Noi dovremmo andare lì, sul non visto, sul non visibile.

Se pensiamo che l’amore non occupi spazio, sia invisibile, non produca rumori, proprio in quest’epoca in cui tutto l’intangibile sembra quasi non esistere, sembrerebbe essere inutile. La riscoperta di questo tipo di attenzione verso l’invisibile è un modo per riconnettersi con il senso stesso dell’esistenza.
Certo, dovrebbe essere questo. Nel momento in cui esci dalla carovana dei cortigiani della macchina d’oro, come li chiamo io, la prospettiva cambia. Siamo tutti cortigiani della macchina d’oro e tutti odiamo la chiave di questa schiavitù. Siamo schiavi di noi stessi, delle nostre gabbie mentali, mentre c’è qualcuno che sfrutta questa schiavitù. Ebbene, se si riesce a uscire da questa sorta di incantamento terribile, si riprende incredibilmente a ricordare quanto il mondo sia divertente. Tutto ciò che succede nel mondo lo è. Ne ho preso consapevolezza leggendo autori che molti definiscono depressi, tipo Emil Cioran, Guido Ceronetti. Ti cito figure che vivevano e vedevano in maniera ulteriore, nel trascendente. A me viene da pensare che quando uno riesce ad astrarsi da questa macchina d’oro, dall’essere schiavo, tutto il mondo ti parla e soprattutto diverte. È bellissimo vivere! Il problema è che ci fabbrichiamo una realtà che ci azzanna inutilmente, perché tanto le cose essenziali per l’uomo (lo direbbe anche Mengoni!) sono poche (ride, ndr).

In Pescatori di Perle parli “di continuare ad imparare a lacrimare da un occhio solo”. L’altro occhio, invece, secondo te, va tenuto spalancato, lucido e asciutto, switchando poi l’interruttore dell’emotività, oppure sarebbe preferibile tenerlo completamente chiuso?
Oggi tutti i sensi sono sacrificati all’occhio ed è normale e logico in una società che bada più all’apparire che all’essere. Io sarei per spalancarlo, perché il senso è che è un avvisatore, come può esserlo il pescatore di perle, che può essere un custode, non un aguzzino, uno che scrive i breviari di sopravvivenza per gli altri. Lacrima dall’occhio in cui non viene visto dagli altri, l’altro lo tiene allora spalancato per rassicurarvi, come a dire “non ti preoccupare, è tutto sotto controllo”, ma la sofferenza esiste, c’è nell’occhio che lacrima. Tempo fa ero in auto con una persona a cui ero molto legato e mi faceva degli scherzi. Alle volte, mentre guidava, l’occhio sinistro lo teneva bene aperto, ma quello destro, specialmente di notte, lo chiudeva per farmi pensare che dormisse. Perciò mi è venuta in mente questa cosa che faceva molto ridere quando succedeva e l’ho virata nella drammaturgia di quel pezzo. Quello è un brano a cui tengo molto, è incredibile il fatto che io ancora abbia speranze nell’umanità. Ho scoperto nel tempo che l’ho molto sopravvalutata. Eppure ci credo ancora al fatto che gli esseri umani non siano così idioti da farsi le guerre, uccidersi tutti, non tenere presente il fatto che quelli più deboli devono essere protetti e non lasciati andare. Insomma ecco, è incredibile, ma ci credo ancora. Non succederà ma ci credo ancora.

Però io penso che questa speranza, in quanto forma di ispirazione, possa trasformarsi nell’inchiostro con cui viene prodotta emozione.
Sono d’accordo. Questa speranza esiste ed è in tantissimi, però quando non conviene salvare un popolo perché costa troppo (risata amara, ndr). Rido perché non posso credere ad un cinismo del genere, rido per non piangere, rido per non essere disperato. Ancora nel 2024 si ragiona per avamposti, si ragiona per convenienze, stiamo distruggendo il pianeta e non ci rendiamo conto di quanto sia assurdo che ci sia una disparità tra uomo e uomo. Lo trovo estremamente stupido. Per questo ti dicevo che ho sopravvalutato il genere umano. Ho sempre pensato di essere il peggiore, sia dal punto di vista dell’intelligenza che dal punto di vista della sensibilità. Ma se questa è l’umanità, porca miseria!

C’è da preferire le pietre sul serio a quel punto, per usare le parole di una tua canzone…
Io ne sono abbastanza certo, tra l’altro visto che sono misteriose, secondo me hanno un sacco di cose da darci di più rispetto agli uomini che hanno il cuore di pietra.

“Il mondo si sta suicidando, i ricchi mettono la corda e i poveri il collo”, dice il poeta Franco Arminio…
Diciamo che è sempre stato così, solo che adesso il vero nemico sono i desideri dei poveri che non possono più neanche ribellarsi. Capisci qual è il problema? Il post-capitalismo, il turbo-capitalismo ha fatto in modo che tu desideri talmente tanto ciò che hanno gli altri, quelli del primo piano, che sei proprio tu a crearti e ad attaccare la corda al gancio. Questa cosa Pasolini la diceva nel ‘66, non capito. Esistono tante forme di nazismo. Questa è la peggiore perché non c’è neanche l’uomo con i baffi a cui rivolgerti e ad arrabbiarti. È molto più diffuso e polverizzato purtroppo.

Veniamo alle dinamiche del mercato musicale qui in Italia, foraggiato con dosi di apparenza e canzoni brutte. Manca un reale spessore in gran parte di quello che si produce oggi, non mancano invece escamotage come l’infausto autotune soprattutto, rendendo tutto un intrattenimento da streaming, creando podi di polistirolo su cui campeggiano artisti della supercazzola, disincantati, a sorridere a favore di telecamera. Invece, trent’anni fa questo nostro Paese era forse una delle scene musicali indipendenti più consistente e resistente. Qual è stato il punto di discontinuità, l’inizio del blackout, questa disattenzione al gusto, questa disaffezione al bello?
Ho due teorie. La prima parte dall’assunto che non è che quella scena fosse interessante soltanto perché c’erano i facitori che avevano delle idee diverse o in più; il fatto è che c’era un pubblico, c’erano degli esseri umani che erano interessati alle idee degli altri. Il senso era questo. Io ricordo quando sentii alcune cose dei CCCP e mi resi conto di non capire perché venivo da un altro mondo, venivo da Peppino Gagliardi, non sto scherzando, cioè dalla musica generalista italiana. Perciò non capivo i CCCP e quello che ho fatto è dirmi, “ah non capisco, allora sono io che non comprendo e devo approfondire per capire”. Questa cosa in questi anni è stata assolutamente ribaltata. Se tu non capisci qualcuno, sei portato a dire a quest’ultimo “sei tu che non ti spieghi”; sembra una cosa banale ma è di una sottigliezza che fa tutta la differenza. Perché, se tu prima nel sentirti in difetto, andavi a cercare l’identità sia della cosa che ti poteva interessare e incuriosire, sia la tua identità che si bagnava all’interno dell’identità altra, oggi invece si cerca soltanto l’eredità ed è ovvio che chi è facitore in questo momento non ha bisogno di fare una particolare ricerca. Ha bisogno soltanto di essere interessante dal punto di vista fisico, di avere un ottimo ufficio stampa e del fatto che se ne parli bene o anche male, tanto non è un problema. Detto questo, secondo me, mai come in questo momento c’è una grande creatività. E lo dico a discapito di quello che faccio io. C’è una grande creatività nel senso che sono velocissimi, fanno cose interessanti. Quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo noi, quelli della mia generazione e quelli della generazione successiva, è semplicemente un altro tipo di ricerca.

È stato ed è artigianato fatto bene.
Sì, ed è come se noi fossimo ancora incantati dalla possibilità, dall’illusione, dall’idea di riuscire a migliorare le cose, parlandoci bocca per bocca. Oggi sono spietati, non hanno alcuna speranza, giustamente perché non c’è alcuna speranza, sono cinici e ogni volta che fanno un pezzo si mettono lì e dicono “allora abbiamo quattro ore per fare questa cosa”, trovano delle frasi a caso, alle volte sono proprio, che ne so, l’ultima frase di Fast & Furious 6, ma funziona. E sono bravissimi a fare questo, cioè sono bravissimi a fare Chewing Gum Music, sono meravigliosi. E guarda, ci vuole grande talento. Cioè mai come in questo momento secondo me la creatività in Italia è ai massimi livelli, parlo del fatto di fare una cosa in tre ore!

C’è da dire anche che effettivamente in tutto questo tempo un grosso impulso è stato dato soprattutto dalla tecnologia. Un tempo ricercare il bello significava affrontare, lato pubblico e lato artisti, molte volte un percorso di ricerca tortuoso, anche eroico per certi versi. Oggi la parola d’ordine è velocità, appunto. Tu ritieni che ci possano essere delle strade per rendere l’uso della tecnologia meno spersonalizzante o addirittura funzionale alla creazione di contenuti degni di tale nome?
Non te lo so dire, perché secondo me l’esperienza tattile, l’esperienza respirante del contatto tra essere umano e essere umano è ancora fondamentale. È chiaro che ora si muove tutto in maniera completamente diversa e perciò quando si parla anche di cose importanti ci si fa una call, (mi fa sempre molto ridere); io volentieri prenderei un treno e verrei parlarti in faccia domani mattina, ma questo è un altro discorso. Il senso è proprio questo, manca quel tipo di esperienza, che è un’esperienza tattile, olfattiva, di trascendenza quando tu hai un rapporto, una relazione; non siamo soltanto quello che vediamo, siamo anche quello che nascondiamo, siamo anche ciò che non diciamo. È come se fosse presente un valore assoluto, come in matematica quando metti quei due piccoli segmenti ai lati del numero, cioè praticamente quello che succede è che tutto è in valore assoluto e si perde tutto il resto. Però non voglio essere nostalgico. Dico soltanto che secondo me l’unica maniera per recuperare questa cosa è di nuovo, per l’ennesima volta, andare sul campo e ricominciare da capo. Puoi nutrirti di fantastiche soddisfazioni personali con il led wall di 50 metri, le persone che ti cantano i pezzi, che cantano pezzi che magari non hai scritto tu e che tu canti in maniera ignobile oppure nobilissima, ognuno la pensa come vuole. Ma il problema grande è che a fronte di questa esibizione non c’è mai l’espressione, capisci qual è il problema per me? Il mio problema nel comprendere tutto questo circo non è legato ai numeri che fanno e all’ambizione che hanno di avere posizione nel mondo. Figurati, lo comprendo benissimo e fanno anche bene, il problema però è che non dai niente né a te né agli altri. Perché, ti ripeto, è esibizione. Se tu mi chiedessi: “quando ti esibisci a Napoli?”, ti risponderei: “io non mi esibisco, vengo a Napoli piuttosto a piedi o a nuoto e semmai mi esprimo, ma soprattutto vediamoci”. È proprio questa la differenza, la differenza è che è tutta esibizione. E, se è tutta esibizione, allora hanno ragione i divi del porno, che tra l’altro non sono muti come Rodolfo Valentino, alle volte gemono.

Parliamo dei featuring. Dimmi di Neri Marcorè, Dario Brunori e Malika Ayane. Nell’attuale era di featuring abbastanza improbabili, nel tuo caso invece si intravede questo sentiero luminoso che evidenzia delle affinità innegabili. Mi incuriosisce capire come nascono le collaborazioni che scegli.
Permettimi, in primis, di dire che Neri, Dario (lo conosco da anni) e Malika hanno fatto quello che spesse volte non fanno tante altre persone: hanno visto dei naufraghi su una zattera e hanno gettato una cima. Se questo slancio si verificasse anche in quello che succede giorno per giorno, ad esempio nel passaggio dalla Libia all’Italia potrebbe servire molto; ecco, questa generosità è una cosa che ho sentito in maniera specifica. A tutti e tre sono piaciuti molto i brani. In particolare a Dario ho fatto ascoltare tutto, ma l’unico pezzo che gli è piaciuto veramente è stato l’Oceano, quindi, quando l’ha fatto, si sentiva appartenente a quella narrazione; così come Neri su 27-12 e, inspiegabilmente, Malika su quel pezzo che si chiama Non esiste altro. Cioè, sono cose che, in tutta franchezza, non avrei mai pensato, dico la sincera verità. Sono stati poi i ragazzi di Woodworm label a chiedermi di ampliare la tavolozza dei colori con l’apporto di altri artisti. Perché io ai miei canto come un prussiano, e dopo un po’ i baffi di sego rompono le scatole, perciò secondo me hanno avuto una bella idea. Non ti nego che io vorrei far suonare il pianoforte a Lazza su un pezzo, perché secondo me è una cosa che servirebbe anche a lui. Perché non suoni più il pianoforte, Lazza? È una cosa importante.

Chiami il tuo progetto “I Benvegnù”, ribadendo in maniera netta questa idea di collettivo, che ormai è un dato di fatto.
Come i Ramones, ma molto meno intelligenti!

Ormai la riconoscibilità del vostro suono è un marchio di fabbrica, quanto questo è un punto di forza? Rispetto ai tempi degli Scisma, cosa è cambiato nel processo creativo inteso all’interno di una compagine?
Non sono più un tiranno. I primi sei anni con gli Scisma ho tiranneggiato, facevo le parti a tutti, dovevo dire a tutti quello che facevano, mi occupavo anche della loro vita privata, ero una sorta di Stasi. Per fortuna l’ultimo anno, quello di Armstrong, è stato un anno in cui non facevo più così. Ma non abbiamo saputo sopportare la libertà, è una chiave che ho capito non tanto tempo fa, non abbiamo saputo sopportare il fatto di essere liberi dal mio tiranneggiare, dal mio essere un generale della Stasi. Perciò con i Benvegnù la linea è “fate quello che volete come lo volete e quando lo volete”, e il senso è molto aperto. Normalmente traccio un disegno e poi scelgo la cornice, il resto lo fanno loro e non è una limitazione perché per me questo collettivo è un collettivo che deve crescere. Per me un gruppo di persone esiste in maniera specifica quando tutti sono in crescita e noi siamo in crescita. Lo sono i miei compagni perché molto più giovani di me e sempre alla ricerca di idee nuove, sensazioni nuove. Lo sono io semplicemente perché mi beo della loro ricerca. È un valore aggiunto nettamente. È chiaro ed è ovvio che puoi trovare fuori dalla cerchia della tua famiglia qualcosa di diverso. Ma il problema è questo: quando la tua famiglia ti dà tutto quello che ti fa essere felice, perché cambiare? Funziona perché sono bravi loro e sono anche molto pazienti perché, come avrai potuto notare, sono dall’altra parte, sono slacciato rispetto alla realtà e perciò provo a pensare a quanta pazienza devono avere. Spesse volte negli autogrill mi dicono “guarda che stiamo andando via, non puoi stare qua dentro, vieni fuori dal bagno, forza nonno, torniamo fuori”. È bellissimo!

Cosa c’è da attendersi da questo tour che è alle porte e di cui sono state annunciate le prime date? Se ne aggiungeranno delle altre, magari Napoli?
Sì, lo spero veramente perché mi manca l’atmosfera della vostra città e mi manca l’esplorazione che mi piace tanto fare da Roma in giù. Mi piace perché c’è tanto da comprendere. Sono incantato dalla storia esatta, incredibile e superiore che c’è al sud e perciò per me arrivarci è qualcosa di formativo e non vedo l’ora. Noi ci muoviamo sempre su canovaccio, abbiamo degli appuntamenti che ogni tanto rispettiamo e ogni tanto no e perciò la narrazione è così abrasiva. Pertanto se vogliamo identificare per questo tour un mood rispetto al passato, per vicinanza di abrasione, parlerei de Le labbra, che è un disco che spesse volte non prendo in considerazione. Però l’idea è di essere brucianti, voglio andare nel fuoco insieme ai miei compagni e vedere che cosa succede. Voglio andare veramente verso la massima espressione della passione. Siamo stati un po’ formali negli ultimi anni, invece io vorrei proprio andare verso la bellissima disperazione dell’amore assoluto.

Venendo allo scenario italiano, ci sono bolle di ossigeno puro rappresentate da programmi tv come Via dei matti numero zero di Bollani con cui poi hai condiviso un’esperienza importante nei Presepi viventi. Questi progetti possono ancora fare la concreta differenza?
Sì, se tu dai in mano una cosa a Stefano e alla sua compagna, Valentina Cenni, esseri consapevoli, può cambiare qualcosa. Però cambia per l’1% della popolazione italiana. Noi siamo obnubilati da stupidaggini da almeno 40 anni. Io c’ero, avevo già 15 anni, ero molto sveglio all’epoca, non come ora. Mi ricordo l’ascesa di Berlusconi, non tanto a livello nazionale, ero a Milano e mi ricordo la sua ascesa nell’edilizia e poi con le televisioni. Devo dire che ha fatto un bel lavoro, perché è riuscito in 40 anni a rincitrullire completamente una popolazione. Complimenti a lui e complimenti a coloro i quali hanno seguito i suoi dettami legati al denaro, all’apparire, al farsi vedere, a quella che io chiamo professionalità. Se la professionalità vuol dire che non ami più, ecco io allora preferisco essere amatore. Ecco che allora, parlando del programma di Stefano, e di altre piccole cose che ci sono in televisione, lì ci sono ancora gli amatori, anche se sono professionisti, sono amatori perché amano quello che fanno. Le cose si muovono in maniera diversa da altre parti. Mi viene da pensare a quel meraviglioso artista che è Bergonzoni. Quando dice che ovviamente si muove a teatro e soltanto in una serie di teatri non è che gli fanno fare tipo il Sistina, per intenderci. Quando dice che non è il successo ma far succedere, mi sembra che sia la cosa più bella del mondo, non trovi? Ovunque succeda, far succedere, ecco.

Tu racconti anche l’assenza di rabbia, di consapevolezza. Questa rassegnazione nell’attendere che qualcuno tiri la moneta e cambi gli scenari, da che cosa ritieni che possa essere generata?
Sono due le motivazioni. In primis, l’opposizione non urla perché nel momento in cui urli il potere di turno ti dice “urli perché non hai il potere”, e questo ti esclude completamente dai giochi. La seconda è che gli esseri umani più preziosi, quelli che veramente potrebbero gestire uno stato, quelli che veramente potrebbero pensare agli altri, insomma i migliori, o se ne vanno via da questo Paese oppure stanno zitti perché sono troppo intelligenti e non vengono capiti. Magari parlano, ma non vengono mai compresi. Allora, qual è il problema? Dopo un po’ che uno continua a dire, “oh figliolo, non farti del male, non fare questa cosa per cortesia. Ti spiego anche per quale motivo, se tu fai così, non fai soltanto male a te stesso, ma anche agli altri”. Te lo spiego una, due, tre, cinque, dieci volte. Alla ventesima volta io faccio come i cani, prendo e vado a morire in spiaggia. Ma è sempre stato così, tranne in quel momento di Engagement, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dove incredibilmente si respirava libertà. E sai perché c’era libertà? Perché c’era povertà. E allora le persone si davano una mano perché non c’era niente. Gli uomini appena hanno qualcosa incominciano a diffidare della pace, perciò è tutto un guardarsi l’uno verso l’altro. Poi c’è questa grande frustrazione, ognuno vuole essere Dio, ognuno vuole essere Justin Bieber, ognuno vuole essere Guè Pequeno. Il problema è questo, anzi non il problema, è la cosa giusta; è molto giusto voler essere Guè Pequeno, però per arrivare a essere Guè Pequeno bisogna essere bravi a far qualcosa. E allora ognuno punta a questo, ma vuole arrivare a questo senza fare sforzo. La frustrazione sta anche in questo negli esseri umani, nel fatto che non ce la fai ad ammettere che gli altri sono più bravi di te, sono più intelligenti di te.

È la cosa più faticosa per l’essere umano in generale.
Lo so, però succede questo, la frustrazione è sempre stata un’arma, un nodo gordiano. Non è un discorso di vita o di morte, non c’è un momento in cui se tu sbagli qualcosa muori, oppure se tu sbagli qualcosa veramente succede qualcosa di profondissimo, di difficilissimo da mettere a posto. È tutto rimediabile, capisci? Perciò ci trasciniamo in questo rimediabile, sotto l’inno del “poi Dio ci pensa”. Perciò il mio problema è sempre questo, se tu hai questo tipo di frustrazione, tra mondo immaginato e mondo reale, non riesci a muoverti e ovviamente diventi aggressivo e non capisci per quale motivo gli altri non ti adorino. Come mai non mi amano? E non ti amano perché forse non lo meriti alle volte, no? Io lo so benissimo, perché io ad esempio sono uno dei campioni regionali di stizza cosmica; ci sono delle cose che mi danno noia, però non le dico a nessuno, e tutti i miei amici del club della stizza cosmica sono come me, ci vediamo da qualche parte ne parliamo, ci scambiamo informazioni sulla stizza cosmica e poi andiamo via.

Volendo parlare di un argomento più leggero, Sanremo è appena terminato. Senza voler fare degli snobismi, ti ha mai sfiorato l’idea, oppure è un recinto da cui ti tieni scientemente e serenamente lontano?
No, no, l’ho provato, ma che scherzi, io ho una figliola da far campare. Se vado a Sanremo per un anno e mezzo, due anni, posso farle fare dei corsi di nuoto quattro volte alla settimana. Però il problema è che non mi pigliano mai e va bene. In realtà c’è stato un momento, avevo mandato tanti anni fa Avanzate Ascoltate. Avevano anche chiamato, mi hanno detto “un pezzo bellissimo, un po’ troppo bello”. Grazie per la stima. E allora che cosa può fare uno? Prova a scrivere per altri, io ho provato a scrivere per altri e non sono mai stati presi. La mia è una storia di respingimenti, capisci per quali motivi ho dei problemi con questo governo? Non posso andare d’accordo con Salvini, è tutta la vita che ho a che fare con i respingimenti!

Sei partito pennellando Piccoli fragilissimi film, 20 anni fa ormai, per arrivare oggi poi a produrre un robustissimo romanzo sul senso delle cose. C’è qualcosa in questi 20 anni che rifaresti in maniera diversa?
Sì, ma non nella musica. Nella musica ho fatto quello che ho potuto, perché non sono né così intelligente, né così sensibile, perciò ho fatto quello che ho potuto di volta in volta. Nella vita qualcosa cambierei, ma sono cose che penso tutti abbiamo. Allora, dal punto di vista strettamente musicale, se uno parte dal 1999, da Armstrong ed arriva a questo disco, qui ci trova tutta la continuità, è tutto un racconto. Ho raccontato tutta la mia vita, ripetutamente e penso con dovizia di particolari e approfondimenti e anche leggerezza alle volte. È incredibile come sia stato così fortunato, non tanto musicalmente ma in generale, non avrei mai pensato di avere a che fare con così tanti esseri umani incredibili, di ricevere dei regali dagli altri così grandi che mi imbarazzo soltanto al pensiero di averli avuti, perciò è una grande cosa.

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