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Temple of the dog – Temple of the dog

E’ il 1991 e un lutto porterà a segnare la storia della musica rock. Chissà quante cose sarebbero diverse ora se quella vita non fosse stata bruciata da un’overdose?! Le coincidenze più tragiche talvolta possono mostrare un “lato b” di una bellezza colossale, come se, a seguito di un errore, Dio cercasse di farsi perdonare.
Andrew Woods, cantante dei Mother Love Bone (uno tra i primi gruppi grunge del panorama di Seattle) perde la vita a seguito dell’ennesima crisi dovuta all’assunzione di droga. Gli altri due membri della band sono Jeff Ament e Stone Gossard, e la loro vita sconvolta dal dolore offrirà loro un dono prezioso che il chitarrista Mike McCready consegna tra le loro mani.
Quest’ultimo ha la volontà di far riunire i due giovani musicisti che si erano allontanati per via dell’evento tragico: vuole provare a comporre con loro qualcosa per formare una band. Dal batterista dei Red Hot Chili Peppers viene consigliato a loro di contattare un giovanissimo cantante chitarrista che ai tempi lavorava come benzinaio: di nome fa Eddie Vedder.
Nel frattempo Chris Cornell, voce e mente dei Soundgarden, ex convivente del compianto Woods, ha scritto alcuni brani dedicati proprio al caro amico e, una volta contattato Mike McCready gli propone di trovarsi a suonare insieme i pezzi.
A provare e poi a registrare si ritrovano quindi Cornell e Matt Cameron dei Soundgarden, Ament, McCready, Gossard e Vedder dei nascituri Pearl Jam (ai quali in futuro si aggiungerà lo stesso Cameron alla batteria).
Tutte e dieci le canzoni sono state scritte da Chris Cornell che risulta la vera mente del progetto (le musiche di soli due pezzi hanno la paternità di Gossard), e tutti i brani dimostrano essere dei dolorosi saluti all’amico che se n’è andato.
Vita, religione e amore sono i temi trattati nei testi di Cornell che non cerca in nessun modo di nascondere il suo dolore, anzi lo mette a nudo con sincerità e dolcezza disarmanti.
La musica dei Temple of the dog è rock-blues che si scioglie nel grunge; un grunge ancora abbastanza incontaminato da quelle sonorità punk ed heavy di cui i Nirvana saranno a breve i portavoce.
Dolcissime e strazianti parole accompagnano il saluto verso il paradiso di Say hallo to heaven mentre Reach down colpisce più a fondo, con durezza e un assolo di ben 5 minuti e mezzo che è la più chiara manifestazione del dolore che i componenti del gruppo potessero fare.
Tortuosi sali e scendi di basso e chitarra incalzati da una splendida batteria vanno a disegnare uno dei più vertiginosi assoli rock di quegli anni 90, che si conclude con l’esplosione vocale di Cornell.
Hunger Strike trova protagonista il canto di Vedder, che per il resto dell’album appare solo come seconda voce in altri due pezzi. Qui Cornell e Vedder si rincorrono in una più solare e melodiosa canzone in cui i due diversissimi timbri vocali dei cantanti sono unici protagonisti del pezzo.
Pushin forward back e Your Savior cavalcano lo stesso cavallo imbizzarrito dai movimenti imprevedibili. Scatti continui e altri potenti assoli: vero rock che spacca, logora e accartoccia.
Strade diverse vengono percorse per scrivere Call me a dog e Times of trouble: in questi due pezzi regna la poesia soffice della addomesticata voce di Cornell, che però non può non trovare sfogo sul finale avvolto da un crescendo complessivo di tutti gli strumenti.
Nell’album si cerca di allentare un po’ la tensione con la più spensierata Wooden Jesus, che anch’essa parte piano per poi salire salire e ancora salire dove al cantante dei Soundgarden è più congeniale.
La sofferenza introspettiva e critica, caratteristica del grunge, diventa ancora più profonda quando è amplificata dalla morte di un amico, fino ad assumere caratteri claustrofobici: “and now the sun is low / and these walls try to break my soul / and now the moon is full / and I won’t see nothing tonight / but the tears in her eyes and / my four walled world”(Four walled world).
L’album esaurisce tutta la sua rabbia nella dolcissima All night thing, splendida ballata in cui tastiera e batteria accompagnano la voce di Cornell al meritato riposo, dopo aver portato a termine l’obiettivo di consegnare l’ultimo saluto all’amico perduto, con tanta passione e amore, rendendo il tutto eterno registrato su disco.
Il nome del supergruppo trae spunto dalle stesse parole di Woods nella sua Man of golden words, un pezzo anch’esso di rara bellezza ed intensità che fa capire perchè egli fosse così amato.
“Wanna show you something like / The joy inside my heart / Seems I’ve been living in the temple of the dog / Where would I live, if I were a man of golden words? / And would I live, at all? / Words and music, my only tools. / Communication”.
I Temple of the dog si sciolsero lo stesso anno in cui nacquero: giusto il tempo di registrare e portare a termine due esibizioni live. La missione era compiuta.

Credits

Label: A&M Records – 1991

Line-up: Chris Cornell (voce, armonica, banjo) – Jeff Ament (basso) – Stone Gossard (chitarre) – Mike McCready (chitarra) – Matt Cameron (batteria, percussioni); Hanno partecipato anche Eddie Vedder (voce) e Rick Parashar (piano e organo).

Tracklist:

  1. Say hallo 2 heaven
  2. Reachdown
  3. Hunger strike
  4. Pushin forward back
  5. Call me a dog
  6. Times of trouble
  7. Wooden Jesus
  8. Your saviour
  9. Four walled world
  10. All night thing

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2 commenti

  1. Questo album è splendido! Mi sono innamorata di “Hunger Strike” al primo ascolto e ho fuso la cassettina a furia di ascoltarla. Non potevi trovare parole migliori per descriverlo.

  2. L’ho consumata anche io questa cassetta all’epoca. La voce di Chris Cornell è unica! Chris Cornell era anche uno dei migliori amici di Jeff Buckley. Veramente un mito per me! Emanuele sei tu un mito che mi hai fatto tornare dietro nel tempo…

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