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O Monolith – Squid

Squid - O MonolithSwing in a Dream, con la sua ritmica introduzione elettronica tra Ultravox e Pet Shop Boys, chiarisce subito che gli Squid hanno centrato l’obiettivo non facile di mantenere intatta la carica dell’ottimo esordio in questo secondo album registrato in gran parte nell’amena campagna del Wiltshire, nella Writing Room degli Sudi Real World, che la band definisce “a James Bond baddie base from which Peter Gabriel is planning on taking over the world“. Un crescendo stratificato fino all’attacco delle strofe che ricalcano la frenesia post wave che marchia il sound del gruppo, con quegli inserti lamellati della chitarre di Borlase e Pearson, che segnano magnificamente i battiti della voce secca di Ollie Judge. Poi, come in un frullatore, ci si immerge nel torbido riff di un Sabba vorticoso, che trasfigura la dolcezza dell’Altalena dipinta da Jean-Honoré Fragonard, solcato da fiati di meditazioni jazz, e contrappunti aciduli, evitando di involvere e appesantire l’aria con declamazioni da reading cogitabondi, come accaduto ai pur bravi Black Country, New Road. Devil’s den lo conferma immediatamente dopo spiccando il balzo dal trampolino dell’introspezione, arpeggiata come una Guinnevere di Croby recitata sotto l’occhio di bue tra gli aliti di ghiaccio di flauti lignei, scivolando dal sogno hippie all’angoscia stoner di Marc Lanegan per poi tuffarsi da lì nel fiume in piena di un colto e bellicoso punk urlante, irto di sciabole aguzze, squarciato da tuoni, squarciato da forconi demoniaci. Un abisso da cui ci si rialza storditi, tormantati dai venti, finché la voce robotica di Siphon song prepara il coro greco in crescendo post rock che condensa in un loop ipnotico e avvolgente la grandeur orchestrale di Atom Earth Mother, con tanto di ripresa astrale da viaggio intergalattico. E si scivola nel lento groove urbano di Undergrowth, non troppo distante dalle prove più oscure dei nostri Bisca (chissà se li hanno mai ascoltati nel Wiltshire), rotto dai break di tastiere hip hop e trombe jazz sfuggite ai live di Davis al Fillmore East, mentre la voce di Judge incappa in tenerezze inaspettate tra le saette urticanti delle sue urla in agguato, mentre dal fondo monta un fraseggio dei synth che dilata in riflessi scintillanti e onirici certi temi del miglior pop anni ’80. Il congegno strumentale che regge The Blades e la sua affilata dinamicità mostrano tutto l’estro compositivo della band, che va molto al di là dell’esemplare e incessante costruzione ritmica: scatena tempeste di sature distorsioni su un maestoso tema progressive di tastiere gonfie di ansiti e fremiti, chiudendo in una ampolla sognante di ballad sussurrata, con le corde dell’elettrica appena sfiorate, che troverebbe il sicuro favore di Thom Yorke. E da quelle ombre dell’animo aumenta gradualmente il battito cardiaco di After the flash, come pronto a invadere una landa placida in marziale crescendo fermandosi di colpo sul ciglio del baratro, dove la marcia di guerra diventa anelito di pace grazie ancora al sapiente intreccio di fiati ardenti e tastiere visionarie, che citano in chiusura il finale apocalittico di The talking drum dei King Crimson. Da quel naufragio incalza il ritmo indiavolato e nevrotico di Green light, che cambia continuamente tonalità per sopraffare l’inquietante ronzio di fondo, e poi si stempera in un intermezzo pop alla Elvis Costello che armonizza una dolce chitarra alla ruvidità della voce, ma è solo un’oasi di serenità in un caos dominante che lascia sul campo cumuli di macerie fumanti. Eppure va ancora in scena il teatro della vita con le vaghe atmosfere carioca dell’ironica If You Had Seen The Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away, introdotta da un riff claustrofobico che risale direttamente a Stone free di Hendrix, affastellata di voci che chiamano da dietro le quinte invocando un finale epico, martellato da un basso acuminato degno di Chris Squire, con tutti gli attori a intonare all’unisono una cantilena ancestrale non scossa da continui cambi di prospettiva né dalle frequenti incursioni distorte, in tonante, brutale, feroce, mortale adorazione del Monolito del titolo. Stanley Kubrik ne sarebbe felice. Come noi.

Credits

Label: Warp Records – 2023

Line-up: Natalie Whiteland (Harp) – Henry Terrett (Percussion) – Zands Duggan (Percussion) – Martha Skye Murphy (Vocals) – Dylan Humphreys (Woodwind) – Nicholas Ellis (Woodwind) – Ollie Judge (Drums & Lead Vocals) – Louis Borlase (Guitars & Vocals) – Arthur Leadbetter (Keyboards, Strings, Percussion) – Laurie Nankivell (Bass & Brass) – Anton Pearson (Guitars & Vocals)

Tracklist:

  1. Swing (In A Dream)
  2. Devil’s Den
  3. Siphon Song
  4. Undergrowth
  5. The Blades
  6. After The Flash
  7. Green Light
  8. If You Had Seen The Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away


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