Home / Editoriali / Get back, favolosa immersione nella creatività dei Beatles

Get back, favolosa immersione nella creatività dei Beatles

Beatles - Get back

È il 2 gennaio del 1969, ancora storditi dal capodanno, i Beatles si ritrovano nella grande sala di posa degli studi cinematografici di Twickenham nei sobborghi di Londra, assieme ai tecnici della neonata Apple Corps e la troupe cinematografica del regista Michael Lindsay-Hogg. C’è un via vai di persone e furgoni che scaricano silenziosamente strumenti e attrezzature tecniche varie. Sembra il preludio di qualcosa di eccezionale, ma al momento nessuno sa esattamente cosa sia, su tutto regna il palpabile e disperato bisogno dei fab four di rimettere insieme i cocci della band, provata da due anni di successi strepitosi ma anche di duri colpi e vibrate tensioni.

Il peso asfissiante della beatlemania, lo stress crescente dei tour interminabili (si stimano oltre 1400 performance live della band in poco più di quattro anni), i concerti ridotti a un unico assordante grido del pubblico in delirio, le contestazioni a Manila e poi negli Stati Uniti, che non digeriscono la frase di John “siamo più popolari di Gesù”, rendono insopportabile la fatica dei 17 spettacoli in due settimane del “Beatles’ 1966 US Tour”, portando la band alla drastica decisione di chiudere con i live dopo l’ultima esibizione al Candlestick Park di San Francisco il 29 agosto del 1966.

Più tempo per comporre e sperimentare negli studi di Abbey Road fruttano lo straordinario capolavoro che è Sgt. Pepper’s lonely hearts club band (primo giugno 1967), ma all’apice del successo è la morte improvvisa del manager Brian Epstein, per overdose accidentale col sospetto di suicidio, a segnare maggiormente le sorti del gruppo che in quello sventurato 27 agosto incontra a Bangor il guru Maharishi (preludio al viaggio in India che cambierà per sempre il percorso di George). La fine della routine disco-tour ha i suoi effetti collaterali e si riflette negativamente su Ringo, che non partecipa attivamente alla composizione dei brani ed è poco interessato alla ricerca sui suoni e le possibilità offerte dai nuovi mixer a otto tracce, al punto di lasciare le sessions del White album per due settimane (vacanza che almeno ispira Octopus’ garden), disturbato, pare, dalla presenza indesiderata di Yoko alle registrazioni: malumore che comincia a crescere anche in Paul e George. Le divergenze sono evidenti, malgrado l’uscita del doppio album il 22 novembre del ’68, e la band, lanciatasi nell’incauta avventura della Apple corps, è ormai in stallo. Cosa fare per venirne fuori? L’unica risposta possibile è quella di suonare, ma alla vecchia maniera, senza fronzoli ed effetti speciali, come nei dischi d’esordio, anzi, come nelle lunghissime notti di rock’n’roll degli ingaggi ad Amburgo, straordinaria palestra senza la quale i Beatles probabilmente non esisterebbero. Ma la band è cresciuta in maniera esponenziale da Love me do a While my guitar gently weeps e non può pensare di ripetersi, per questo il tiro viene alzato di parecchio: riunirsi in studio per scrivere nuove canzoni per uno spettacolo televisivo, magari come la trasmissione in mondo visione di All you need is love, da cui ricavare un album dal vivo e girare parallelamente un documentario sulla lavorazione del progetto. Per le riprese viene ingaggiato Michael Lindsay-Hogg, già autore del video promozionale di Paperback writer, tre anni prima, e soprattutto del singolo Hey Jude, realizzato il 4 settembre 1968 eseguendo il brano dal vivo proprio nella sala di Twickenham, davanti a un piccolo pubblico che sul finale circonda entusiasta la band: un fuoriprogramma che riaccende la scintilla dei live dopo oltre due anni di stop. Hogg ha da poco filmato The Rolling Stones Rock and Roll Circus, cui partecipa lo stesso Lennon in jam con Keith Richards e Mitch Mitchell, e sembra la scelta migliore possibile per filmare un  progetto ambizioso mai tentato prima, né tantomeno oggi nell’era dei reality e della condivisione compulsiva acchiappa like. Tutti sanno com’è andata a finire, il gruppo si è sciolto e il documentario licenziato con lo stesso titolo dell’album Let it be è uscito postumo (20 maggio 1970) restituendo in immagini quello che era nell’aria, un funerale mesto che le luci colorate diffuse con gusto pop sul fondo scena di Twickenham non riescono a rallegrare. Neppure la musica, seppure eccellente, riesce a bucare lo schermo nell’utilizzo prevalente di take in posa che suonano vuote come un concerto senza pubblico. Comprensibile che nessuno dei quattro abbia in seguito pensato di rimettere mano a quel materiale. C’era bisogno di un visionario come Peter Jackson per affrontare una sfida monumentale costituita da ben 60 ore di girato e oltre 150 di registrazioni audio, talvolta effettuate a totale insaputa dei protagonisti. Jackson, si sa, non si spaventa della durata, ma non ricade nell’inutile prolissità di Lo Hobbit, riuscendo a condensare in “appena” otto ore una tale mole, con tanto di introduzione briosa che ripercorre la storia dei Beatles fino al 2 gennaio ’69 in cui iniziano le riprese, raccontando gli eventi con taglio cronachistico cronologico e cerchi disegnati col pennarello sul calendario. E si resta increduli che tante cose siano accadute in così poco tempo. La parabola dei Beatles che in meno di otto anni licenziano 14 album con oltre duecento canzoni trova un parallelo solo in Van Gogh che in un uguale intervallo di tempo è passato dai mangiatori di patate ai corvi sul campo di grano. Nel vuoto psichedelico della sala di Twickenam risuonano nuovi capolavori come Maxwell’s silver hammer, con il martello e l’incudine del fidato road manager Mal Evans, Two of us, I’ve got a feeling, I me mine. È un’esplosione creativa incontenibile, in quel casino pazzesco, tra cazzeggi e tensioni continue, in tre settimane vengono fuori due album, Let It Be e Abbey Road, brani in seguito finiti sui rispettivi album solisti più una quantità di inediti lasciati lì negli archivi di cui si fatica a tenere il conto. Quella che compie Peter Jackson è dunque un’operazione analoga alla riedizione dell’album Let it be curata da McCartney nel 2003, intitolata emblematicamente Let it be naked, nuda, spogliata di tutte le sovrapposizioni indesiderate di Phil Spector che farciscono pesantemente le tracce di base, talvolta soffocando sotto archi melensi linee di piano di tale minimale perfezione e pathos che nessuna aggiunta avrebbe potuto valorizzare.
Nel documentario di Jackson c’è invece quello che hanno fallito quasi tutti i film sui musicisti: la nascita del capolavoro. Senza retorica, enfasi, epica edulcorata e tronfia, ma con lo sguardo asciutto e nitido del testimone attento. Sembra l’inizio svogliato di una giornata che non vuol decollare, Paul McCartney strimpella con poca convinzione il basso, imprecando sommessamente frustrato, Ringo è in stato quasi comatoso e assente mentre George sbadiglia come morto di sonno, finché all’improvviso il mancino imbrocca l’accordo giusto, peraltro suonando il basso come una chitarra, e dice get back. C’è da saltar su dalla sedia perché immediatamente riconosciamo che quello è il momento in cui è nata una delle più celebri canzoni dei Beatles. Guardando scorrere le immagini viene da pensare che Get back nasca come invocazione rivolta a John, non solo perché in quel momento assente ma soprattutto perché Paul è certamente consapevole del velo calato a dividere la coppia di autori più famosa della storia della musica, quantomeno sembra il più colpito da tale separazione e pensa forse al suo amico d’infanzia quando inizia a cantare Jo Jo … get back to where you once belong. Come indifferente a un richiamo tanto intimo, John apprezza subito la canzone senza badare al significato, dando il suo contributo alla costruzione del testo col suo consueto sarcasmo, spesso irritante ma a volte esilarante e follemente giocoso. Ed è proprio quel gioco a due, così profondo e irrazionale, amichevole e scontroso, euforico e commuovente, e finora noto solo da scampoli e frammenti accidentali finiti su disco svelando un dietro le quinte sconosciuto, ad emergere con prepotenza nel documentario di Jackson; un continuo e vorticoso guardarsi allo specchio per trovarsi simili e profondamente diversi, per piacersi e respingersi in fraterna competizione, amplificando gli stimoli ricevuti. È il segreto di Paul e John, ciò che ha reso possibile la magia che sta svanendo e che Paul sembra l’unico a voler davvero rinvigorire. Ingiustamente accusato di voler comandare il gruppo, McCartney è semplicemente il più propositivo ed entusiasta, certamente ambizioso, ma quel che cerca non è la fama bensì il superamento dei propri limiti, animato da una umanità e una saggezza che lo portano spesso a nascondere silenziosamente dietro occhi lucidi una grande amarezza. Presagisce una ferita indelebile che si traduce in un fraseggio doloroso quando siede al piano per abbozzare Golden slumber o The long and winding road, sulle cui note c’è da versare lacrime copiose. Ringo è l’alter ego silenzioso di Paul, insieme duettano allegramente in un rock’n’roll al piano e s’intendono senza dir nulla; è uno stacanovista che arriva sempre puntuale e che ha solo voglia di suonare, ride di gusto e non parla mai neppure per prendere posizione, cosa che fa con due parole al massimo e talvolta ficca una battuta caustica come quando arriva per la prima volta con un leggero ritardo ammettendo “I won’t lie, I’m not so good”. John, invece, ha un carattere acido e apparentemente distaccato, guarda le cose accadere come se non gli importasse, convinto di poter avere l’ultima parola. Impone al gruppo la presenza di Yoko Ono che è un po’ la sua ombra e un po’ il suo alter ego femminile, quasi un feticcio di auto idolatria cui sarebbe superficiale addossare la colpa della fine del gruppo, ma che innegabilmente avrebbe messo a dura prova la sopportazione del più ascetico eremita zen, figurarsi una band di rock’n’roll sull’orlo dello scioglimento. D’altro canto John arriva a Twickenham con la bozza di Across the universe, in cui riversa un amore cosmico e una melodia senza pari, e alla sua maniera fa la sua parte come se tutto fosse normale. Non lo è certamente per George che vede frustrate le sue potenzialità e la sua voglia di cimentarsi proprio dal sarcasmo di John e dall’iperattività direttiva di Paul, ma soprattutto dal dialogo serrato tra i due che non ammette intrusioni, perché viaggia a velocità cui si fatica a star dietro. Ed ecco allora che Harrison molla tutti e lascia la band per qualche giorno, accettando di tornare dopo il mea culpa dei leader (lo si capisce da un dialogo tra i due registrato a loro insaputa) e la promessa di dare una sterzata alla produzione, rinunciando allo show televisivo e trasferendosi da Twickenham, dove a dispetto dei marchingegni di “Magic” Alex non si era riusciti ad allestire una cabina di registrazione adeguata, agli studi della Apple in Saville Row, nel centro di Londra. Qui, superata la crisi di George, c’è un cambio di passo fenomenale come se all’improvviso si accendessero le luci e i pensieri inafferrabili al buio prendessero forma concreta e vivida. Questo è dovuto in parte al cambio di atteggiamento di John, che comincia a rispondere finalmente ai continui input di Paul, spesso caduti nel vuoto, in parte al ruolo più deciso accanto al fidato George Martin, che accudisce i quattro come un padre premuroso, dello spavaldo tecnico del suono Glyn Johns (curriculum spettacolare dai Rolling Stones ai Led Zeppelin, dai Procol Harum agli Who, per non dire che alcuni), che aiuta la band a trovare i suoni giusti per conferire dinamica alle canzoni, e addirittura aiuta Paul a completare il fraseggio di chiusura del giro armonico di The long and winding road. Ma il contributo più rilevante è dato dall’ingresso in squadra del tastierista Billy Preston che aggiunge col suo piano elettrico la giusta fluidità black alle composizioni, arricchendo il suono di accenti e sfumature che danno al suono il groove desiderato dalla band: da giorni si discuteva su come avrebbero potuto dividersi le parti di piano sul palco. Già, ma quale palco? Sfumate tutte le opzioni considerate fino a quel momento, dalle esotiche e archeologiche alle crociere fantasmagoriche, l’idea suggerita da Glyn Johns di salire sul tetto dell’edificio sembra una possibile svolta, anche se non vince tutti i dubbi, per concludere le sessions con uno show, anche se il pubblico potrà solo ascoltarlo dalla strada senza vedere i propri beniamini. Questo infastidisce non pochi tra i passanti e la piccola folla che si raduna per ascoltare il repertorio inedito, che oltre a varie take di Get back, Don’t let me down e I’ve got a feeling, vede anche l’esecuzione di One after 909 e Dig a pony. Sono immagini già celebri sulle quali c’è poco altro da aggiungere, oltre ai siparietti comici degli ottusi bobbies presi in giro da tutto lo staff della Apple prima di raggiungere il tetto, e al recupero straordinario del documento visivo operato da Jackson con le più avanzate tecnologie di “restauro” digitale, che rendono ancor più epico il sottinsù che riprende in primissimo piano John e Paul, le cui urla giganteggiano sullo schermo e trascinano come fossero in carne ed ossa innanzi agli occhi degli spettatori. Un momento irripetibile, per quanto imitato, parodiato e rifatto in tutte le salse, al termine del quale l’euforia inonda la sala di regia degli studi di Saville row dove band, compagne e produttori riascoltano dimenandosi le tracce incise, alcune delle quali finite effettivamente sull’album postumo Let it be, così come le take riprese poco più tardi in studio, tra cui proprio la title-track, con un McCartney al piano finalmente rilassato e felice. E risponde col sorriso a Lennon che in chiusura del concerto sul tetto aveva detto “spero che abbiamo passato l’audizione”.

Ti potrebbe interessare...

Benvegnù intervista

In fuga dalla carovana dei cortigiani, intervista a Paolo Benvegnù

Le conversazioni, quelle belle. Le occasioni commoventi di incontrare, tangendole, le curve perfette della personalità …

Leave a Reply