Questo songwriter italo-americano ci ha colpiti dalle prime note del suo album d’esordio Honeybirds, uscito per l’etichetta partenopea FreakHouse in pieno lockdown. La scrittura di Jospeh Martone è schietta e diretta, si muove nelle trame di uno storytelling personale, autobiografico dove i ricordi diventano canzoni. Le atmosfere che si respirano sono quelle degli spaghetti western, di un folk dalle tinte a tratti blues, tra Mark Lanegan e Tom Waits. Un progetto molto interessante, che non potevamo non approfondire scambiando quattro chiacchiere con il cantautore casertano d’adozione.
Partiamo dal titolo di questo tuo primo disco, come è nato?
Honeybirds nasce dalla voglia di raccontare un periodo particolare della mia vita. E’ una sorta di metafora, nella mia testa c’era l’immagine di tanti uccelli dai grossi becchi che uno dietro l’altro attendono di nutrirsi della loro dose quotidiana, la dose necessaria per riuscire ad andare avanti.
Possiamo definire questo disco autobiografico? Le tematiche affrontate nei brani sono figlie di tuoi ricordi, di esperienze vissute… che poi sono alla base di una scrittura diretta e onesta.
Sì, è decisamente autobiografico. Come ti dicevo, dentro ci sono ricordi, avventure ed esperienze di un periodo particolare della mia vita. Ogni canzone ha con sé una storia che volevo far ascoltare.
Dal punto di vista sonoro ho visto in Oh Goodness Me la sintesi perfetta dell’equilibrio tra tutte le potenziali ascendenze e i tuoi riferimenti, atmosfere tra Ennio Morricone e David Lynch passando per il blues oscuro di Mark Lanegan e Tom Waits. Ti ci ritrovi?
E’ sicuramente un onore leggere certi accostamenti. Parliamo di mostri sacri, persone che hanno lasciato tanto a tutti e che non si può fare a meno di sentire vicine per tutta la bellezza che ci hanno regalato. Questo brano suona oscuro, ma dentro ci si può trovare anche uno spiraglio. La tristezza e la felicità che si intrecciano lo caratterizzano perché la mia intera vita è andata così, da sempre.
Tu sei per metà italiano e per metà americano, quanto questa duplice radice ha influenzato il tuo sound? Nell’ambito degli otto brani in quali ritrovi un’attitudine folk cantautorale “mediterranea” più prevalente rispetto a quella “americana”?
Ho avuto la fortuna di poter conoscere due culture diverse, sia umanamente che musicalmente. Già da piccolo, nel periodo americano, mi influenzavano artisti come Neil Young, Bob Dylan e Crosby, Stills, Nash and Young. Al ritorno in Italia, ho subito tutto il fascino delle musiche di Ennio Morricone e i film a cui ha lavorato.
In questo disco credo che oltre le melodie, figlie della vena mediterranea, si possa ascoltare anche un determinato sound, risultato di una produzione più “americana”, grazie al lavoro di Taylor Kirk.
Il tuo disco si presta molto ad essere una colonna sonora di un film. Quale film del passato avrebbe potuto avere il tuo disco come soundtrack?
Sono grato di leggere che la mia musica rimandi alla mente le colonne sonore, è un grande complimento. Dei film potrei dire sicuramente le opere di Sergio Leone oppure “Le ali della libertà” di Frank Darabont.
Come è nata la collaborazione con Taylor Kirk?
Ho avuto modo di approfondire i Timber Timbre negli ultimi anni grazie all’ascolto di Radio FIP, un’emittente francese. Sono entrato in contatto con lui tramite alcuni musicisti canadesi che ho ospitato nel mio locale. A lui piaceva il disco e, pur non essendo un produttore, ha dimostrato tutta la voglia di volerci lavorare.
Abbiamo svolto la prima sessione a Napoli, città di cui si è innamorato, dove siamo stati per circa dieci giorni; mentre per la seconda parte del lavoro siamo stati a Montreal nello studio di uno dei membri degli Arcade Fire. Abbiamo continuato a sentirci anche dopo il lavoro per il disco, è una grande persona e un grande artista.
Oltre ad essere un musicista e songwriter tu sei anche il direttore artistico di un live club, il Mr.Rolly’s a Vitulazio (CE). Cosa pensi di questo lockdown della musica live dovuto alla pandemia, riuscirà il settore a sopravvivere o è stata la mazzata finale su un tipo di intrattenimento culturale che era già in ginocchio?
Facciamo musica al Mr Rolly’s da quasi quindici anni e abbiamo avuto l’onore di ospitare artisti italiani e internazionali, facendo più di mille concerti sempre ad ingresso gratuito.
Il lockdown ha peggiorato una situazione che di per sé era già molto difficile. Negli ultimi anni un po’ il pubblico è calato, ma soprattutto vedo un pubblico sempre più disattento, irrequieto, poco propenso a farsi trascinare o emozionare, poco propenso a esplorare certi tipi di sonorità. In altre nazioni c’è maggiore affluenza, si è disposti a pagare per un concerto e a partecipare attivamente, si supporta comprando dischi e si vive con maggiore attenzione un’esibizione. Non credo sia solo dovuto alla nostra situazione economica, soprattutto al Sud. Noto la mancanza di collettivi che facciano unione e riescano a portare avanti un discorso culturale valido. A breve inizieremo di nuovo con i concerti, ci proviamo nonostante la situazione non sia ancora facile, perché senza musica non si può stare. Spero che le persone possano ritornare con voglia di scoprire nuovi suoni, nuovi orizzonti, di ascoltare ciò che ognuno ha da raccontare. La musica sa essere diretta e fa sì che ognuno possa percepire qualcosa, possa tenersi qualcosa dentro dopo un concerto, qualcosa che è del tutto personale e intimo. Questa è la sua forza.