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Il furore della lentezza: intervista a Cristiano Godano (Marlene Kuntz)

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Kundera ha egregiamente scritto il suo personalissimo elogio alla lentezza, definendola direttamente proporzionale all’intensità della memoria. Cristiano Godano, con i suoi Marlene Kuntz, ha sempre dato prova di essere naturalmente dentro questa matematica esistenziale.
Le cose belle richiedono tempo, molto tempo perché poi sanno essere devastanti e furiose nella loro Bellezza.
La lentezza, intesa anche come cura, attenzione, generosità, ha segnato quest’intervista, dove la profondità, intellettuale e poetica, fluttua senza paura. Di questi tempi conta sottolinearlo.
Trent’anni di carriera e la scelta di una Resistenza illuminata alla velocità e all’oblìo, alla vacuità e all’ignoranza sono alcuni dei temi toccati. Ovviamente siamo su una galassia per pochi eletti, per animi nobili, menti libere e cuori audaci. Ovviamente si racconta di vita che osa Arte e di Arte che sta alla sfida. La parte aulica del nostro rock è in ottima forma e i successi di 30:20:10 MK², il tour in corso, lo dimostrano. L’età dell’oro dei Marlene Kuntz non è affatto terminata, anzi. (Si ringrazia Beppe Godano per la collaborazione, foto di Carmen Sigillo).

Vorrei cominciare dalla scelta di celebrare la storia trentennale dei Marlene Kuntz. Al di là dei modi (il tour, il libro, le uscite discografiche), mi riferisco proprio al senso che dai tu alla celebrazione oggi, dove tutto è, invece, così fluido e consumabile, anche in termini di secondi, soprattutto per la musica.
Quello che accade oggi alla musica è frustrante. Personalmente mi vanto di aver cominciato a lamentarmi una decina di anni fa dello stato delle cose. Ora è evidente a tutti che ci sono grossi problemi. Questa enorme velocità di consumazione, questa fluidità, come giustamente dici, fa sì che un tuo disco nuovo duri massimo una decina di giorni (fans incalliti a parte, che, giustamente, se amano il tuo disco lo ascolteranno un po’ di più, alcuni, pochi, dopo averlo probabilmente comprato). Questo concetto di durata riguarda l’hype che se ne può creare, e di conseguenza le misere vendite che può determinare. Vende solo il mainstream: se sei molto mainstream, vendi (non è così banale come si creda, questa affermazione), mentre se fai parte della famosa “classe media”… Di questi tempi chi ha leggiucchiato un minimo di questioni economico-sociali sa che essa sta scomparendo sul lato della forbice perdente (il 90% dell’umanità più o meno). Ma insomma, evitando di tediare chicchessia (e sapendo bene di non poter contare sull’empatia di nessuno, perché a nessuno sotto sotto importa nulla di queste cose), celebrare se stessi è prima di tutto una opportunità di determinare situazioni lavorative, ben sapendo che mainstream non potremo mai esserlo (e a condizioni artistiche snaturate non lo vorremmo). Per fortuna a noi suonare le nostre vecchie cose diverte un sacco, e dunque non c’è nessuna nostalgia in gioco. E celebrare i propri trent’anni di attività è pur sempre qualcosa di strabiliante, perché stare insieme per trent’anni è un valore di una potenza quasi inimmaginabile. Questa cosa la diciamo sui palchi, e immediato parte l’applauso lungo e ammirato di tutti coloro che se ne rendono conto. Quindi celebrare se stessi vuole in fondo dire celebrare la nostra resistenza. Non dimentichiamoci che il rock di questi tempi è in disgrazia, e interessa molto poco ai giovani. Anche in questo senso si resiste. Peraltro, noi di questa disgrazia del rock ne abbiamo avuto sentore già parecchi anni fa. E infatti abbiamo fatto un percorso artistico di leggera emancipazione dagli stilemi più consolidati, tentando codici espressivi variegati: chi li ha apprezzati può riconoscerne ancor di più il valore, a questo punto. Certo non potremmo metterci a fare rap o indie, visto cosa si intende per indie al giorno d’oggi. Anzi, sarebbe curioso come esperimento: se noi facessimo indie come si usa fare, e come è osannato dai giornali e testate “specialistici”, credo che verremmo massacrati, da pubblico e critica: curioso, no?

La celebrazione riguarda il trentennale della vostra carriera, condizionata da Catartica, un disco riconosciuto come seminale e uno dei punti più alti dell’età d’oro del rock alternativo della nostra Italia. Fu un momento cruciale per voi. Quali furono le sensazioni, le aspettative, le paure quando l’onda del riscontro cominciò a portarvi tanto in alto?
Noi abbiamo cominciato a renderci conto dell’importanza di Catartica, quale tu la intendi, più o meno a metà della nostra carriera, intorno al 2005/2007 (o giù di lì). E non è una risposta naif: tutto ciò che noi abbiamo sempre e solo percepito di noi stessi era la continua sensazione di star riuscendo a fare i musicisti rock nella vita. Lo testimoniano le volte che questa stessa cosa l’ho detta nelle interviste fino a non molto tempo fa. Ora semmai sto introducendo il concetto della resistenza, come ti dicevo prima. E Bella Ciao non c’entra nulla. Non ora, non qui. Magari più avanti nell’intervista mi chiederai di Bella Ciao?

Certo che te lo chiederò, e so bene cosa significhi la vostra resistenza, ieri come oggi. Chiamo in causa la quarta di copertina di Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, giugno 2019, ndr). “Poi Catartica uscì. Da quel momento in avanti fummo ben decisi a giocarcela fino in fondo. Cosa che, in fin dei conti, stiamo facendo tuttora, lottando e lottando”. Mi ha colpito molto quest’ammissione: chi lotta fa fatica. Un ossimoro dell’anima molto affascinante: celebriamo ma lottiamo, ancora. Butto l’amo a due parole che, forse, fanno centro, emotivo e concreto: fierezza e dignità…
Sì, fierezza e dignità sono decisamente appropriate.

Catartica ha avuto un suo senso oggettivo nella vostra carriera. Però, per te, qual è il disco che, invece, rappresenta l’acme?
È il tipo di domande a cui non so dare risposte. Posso dire che Uno è un disco magnificamente coraggioso e coraggiosamente magnifico (senza scandalizzare nessuno, e con tantissime differenze da tenere in considerazione, lo considero il nostro The good son). Ma anche Nella tua luce è un gran disco, perché è raffinato e, ahimè, troppo adulto per certi ascolti modesti del rockettaro incallito e un po’ sordo. E poi Bianco Sporco, che è un disco cupissimo e intensamente intimo, pieno di altri tipi di raffinatezze. E d’altronde Senza Peso, con la bellissima produzione di Rob Hellis e Head, e alcune ballad che se fossimo inglesi… E Che cosa vedi, disco che tuttora davvero non riesco a capire perché sia stato così bistrattato da certuni: apre con una delle canzoni più devastanti del nostro repertorio, e già solo essa dovrebbe mettere a tacere chiunque. O Ricoveri virtuali e sexy solitudini… che amo per la sua dichiarata vulnerabilità mascherata da inservibile aggressività. O Lunga Attesa, che in quanto a materia rock dovrebbe mettere d’accordo tutti gli incalliti di cui sopra. (Il trittico iniziale lo lascio a tutti quelli che “i veri Marlene sono quelli dei primi tre dischi…” bastano loro a celebrarli).

Quali sono state le tempeste più pericolose della storia dei Marlene e di Godano, come autore?
L’avvento di Internet ha rappresentato, dal punto di vista del musicista che sono (oltre che fruitore, come tutti), la tempesta più ardua da sostenere. Ha scompaginato le nostre piccole certezze di star riuscendo a portare avanti la nostra esistenza modesta e dignitosa di musicisti che vivono della propria musica in un paese complesso e poco ricettivo come l’Italia. Perché ha decurtato della metà i nostri introiti. E recuperarli da altre parti e da altre fonti è impresa complessa e fatta di impieghi di energie di cui la gente comune non ha contezza. L’avesse empatizzerebbe molto di più.

La soluzione del doppio concerto mi ha sempre suscitato l’idea di una rivendicazione dell’anima più morbida e affamata di lentezza di Marlene. Per assonanza di suggestione la mente torna allo S-low tour, a quello che ancora oggi significa, in termini di bellezza artistica che quel tipo di scelte vi ha fatto conquistare. Vorrei che mi parlassi della “tensione” che nasce in acustico, della sua potenza differente da quella elettrica… nella storia dei Marlene.
Io posso solo dire che quando suoniamo in acustico e tutto funziona godo tanto quanto nell’elettrico quando tutto funziona. Sono anni che dico che il mio primo idolo è Neil Young, quello acustico. Conosco benissimo tutti i suoi dischi (a parte alcune produzioni recenti, che ho comunque seguito, anche se lui è prolifico ai limiti della ipertrofia) e ce l’ho dentro tanto quanto ho dentro Sonic Youth e Nick Cave: dunque quando sento che la band riesce a raggiungere quel tipo di calore, quella pienezza di suono, quell’incedere quasi indolentemente country, quella potente delicatezza che sento in canzoni come Harvest Moon (Neil Young), o in Far from me (Nick Cave), o in The window (Leonard Cohen) o… ecco, in quei casi godo tanto. (Mi immagino quelli che “sì, ma tu non sei Neil Young…”, e sorrido).

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L’altro modo con cui si intona la celebrazione del trentennale è l’uscita di Nuotando nell’aria, ovvero il libro in cui alzi il sipario sul “backstage del processo creativo” che segna i primi tre dischi dei MK (Catartica, 1994; Il Vile, 1996; Ho ucciso Paranoia, 1999). Si tratta di un volume corposo dove non c’è approssimazione alcuna, bensì dedizione, fierezza, dignità (mi ripeto!). Tutto torna, torna la coerenza: essere pienamente la profondità che avete scelto di mettere dentro il vostro rock, il riscontro e l’approvazione sono conseguenza, non l’obiettivo…
Quando scrivo non saprei davvero come fare… a essere approssimativo. Il mio modo di scrivere segue il mio pensiero, che apre miriadi di parentesi a seguito delle riflessività e dell’onestà intellettuale, qualità che di questi tempi meriterebbero qualche istituto preposto alla cura e salvaguardia.

Questo libro rende inevitabile l’accostamento con Parole e musica, la formula che ha contraddistinto i tuoi concerti in solitaria in giro per l’Italia. Un interlocutore a porti domande, tu a raccontare e a cantare, accompagnato dalla chitarra, in un’atmosfera acustica così intima e suggestiva. Tu sei un artista alquanto anomalo, non ti nascondi, ti sveli, ti doni e prendi dal tuo pubblico, in uno scambio insolitamente speciale. Parlami di questo velo che cade…
Me ne rendo conto, e al pensarci davvero sento stridere dentro il tipo di “astio” che ho spesso percepito nei miei riguardi dai rosiconi vari dell’intellighenzia rock (o dai semplici furbetti e saccenti): chi mi viene a sentire non può non cogliere il mio profondo senso di onestà e a volte quasi di umiltà, dote che non ho peraltro mai richiesto ai miei artisti del cuore, non capisco perché dovrei aspettarmi da un artista l’umiltà. Quasi un ossimoro, a ben pensarci… Eppure in quanti qui in Italia ti accusano di mancanza di umiltà? Mi è sempre sembrata una delle rivendicazioni più stupide… e italiote. Cos’ha da dimostrare ancora uno come me, a ben pensarci?. Ebbene, nonostante questi presupposti, credo che chi mi viene ad ascoltare nelle mie lunghe chiacchiere, spesso confidenziali, non possa non percepire quasi un senso di umiltà. Io non so se si debba chiamarla così: io la chiamo schiettezza. Non mi piace “mandarla a dire”, amo… dirla. E dirla tutta. E infatti, ben avendo capito quanto poco sia proficuo dirla tutta, ho implorato spesso per me la dote della paraculaggine, qualora un giorno potessi rinascere e potessi tornare a fare il musicista.

“[…] in qualsiasi foglio io mi imbatta trovo sempre lo stesso inizio: Chili di silenzio per inaugurare un nuovo gioco. Per me questa è la dimostrazione di uno di quei nuclei ispirati di cui vi ho parlato da qualche parte, quelli che esprimono l’intima essenza dell’autore”. Posso chiederti di questi nuclei e di come vivono nel tempo, dentro di te, soprattutto nel corso di una performance?
È una gran bella domanda, profonda e intelligente. La mia risposta potrebbe deluderti, ma sono sicuro che in fondo ciò non accadrà: quando un artista è in tour, esattamente come un attore di teatro, ogni sera recita. La nostra recitazione non è per nulla da intendersi in un senso dispregiativo: si tratta semplicemente di salire sul palco molto concentrati e andare a fare la propria parte al meglio. Questo garantisce comunque una performance intensa e del tutto conforme all’intensità delle parole scritte e poi cantate, ma non si può non tenere a mente che si sta facendo per l’ennesima volta un qualcosa che hai fatto centinaia di volte in altri concerti. Questo vale per chiunque: qualsiasi cantante è alle prese con queste centinaia di volte precedenti. Si tratta di domare la routine, e di mascherarla il più possibile trasformandola in energia travolgente. In tal senso se all’origine ci sta una creazione vera (e le nostre creazioni lo sono), questa energia travolgente è garantita, perché le canzoni che facciamo sono talmente vere e intense da travolgere ogni sera prima di tutto noi stessi. Fare un libro come il mio, invece, aiuta moltissimo a recuperare certe emozioni artistico-creative impagabili, perché si è semplicemente costretti a pensarci su con calma rileggendosi.

Nuotando nell’aria è uno dei brani classici del repertorio dei Marlene Kuntz. Mi racconti i motivi della scelta di questo titolo per il libro?
Semplicemente nel libro dimostro quante volte nei miei testi io mi sia proiettato in volo. Un volo poetico, da poeta (come dimostra Italo Calvino nella sua lezione americana sulla leggerezza).

Il libro, ancora una volta, svela la tua dedizione alla parola. Riesci in combinazioni ardite che fanno dei tuoi testi Poesia. E la poesia per i Marlene Kuntz è una visione, una prospettiva cui dedicare energia e fatica, un’ancora di salvezza che ci restituisce alla Meraviglia. Tu sei tra i pochi a vivere in pienezza e fierezza l’aura poetica che gira dentro e fuori il vostro rock, mentre si tende a voler scindere la poesia dall’estetica di certi generi musicali, quasi come a temere un’etichetta di pesantezza che poco “paga”.
Ti ringrazio. Diciamo che a un ipotetico corso “per diventare cantanti famosi”, o se si affida il proprio disco a un produttore mainstream, o ancora se si cerca la gloria in un talent, non ti permetteranno di certo di usare certe parole ingombranti. Pensa a De Andrè (o a Fossati o a qualunque cantautore di quelli da tenere in alta considerazione): non lo senti certo in radio facilmente. Immagina come la gente comune cambi canale in fretta al sentire qualcosa di poco leggero e spensierato. Ma poi… bisognerebbe molto ragionare su cosa è poesia e cosa è poetico (c’è differenza tra “poesia” e “poetico”, una differenza di sostanza) e cosa no… Neanche dopo lunghi simposi sul senso profondo della poesia ci si potrebbe mettere realmente d’accordo su cosa sia di valore e cosa no. Ognuno ha le sue opinioni, e a volte quando sento dire che quel tale cantante è incredibilmente poetico io interiormente dissento. Detto tutto ciò… grazie per le belle parole che mi riferisci. In fondo, al netto dei complimenti, quello che dici è vero: sono tra i pochi a vivere con pienezza e fierezza quell’aura poetica di cui parli.

Il trentennale viene segnato anche da una doppia uscita discografica: MK30 – Best & Beautiful (cofanetto triplo cd) e il doppio vinile Covers & Rarities. Tra le cover, ti chiedo di parlarmi di Bella Ciao e Karma Police, delle motivazioni emotive di queste scelte e della strada artistica che avete percorso per arrivare ad arrangiamenti suggestivi e significativi.
Eccola! È arrivata la domanda che mi aspettavo… In questo caso l’uso del termine “resistenza” si fa più didascalico, per così dire, e stringente: con quella cover noi semplicemente abbiamo dato il nostro contributo alla riflessione, e al tenere ben fermi i capisaldi della libertà. Purtroppo un sacco di gente non ha capito (o meglio: non ha avvertito) che ci sono (stati?) reali pericoli di derive di regime. Ma questa è una cosa su cui la stessa comunità dei pensatori e commentatori (di destra e di sinistra) è divisa, e molti amano frenare rispetto all’uso di certe parole. Noi non siamo di questo avviso, e temiamo come la peste il regime e le democrazie illiberali (o come eufemisticamente le si vuole chiamare), e ogni volta che ne sentiremo il pericolo cercheremo di contribuire alla riflessione. Senza supponenze intellettuali ma con la semplice forza, si spererà, della persuasione. Karma Police invece nasce da una occasione esterna a noi: ci venne semplicemente chiesto di partecipare alle celebrazioni di Ok Computer, un’idea venuta all’amica Silvia Boschero di Radio Rai Due.

A breve l’uscita di un tuo disco solista. In verità l’esperienza di Parole e musica qualche sospetto me lo aveva generato. Cosa puoi svelarci a proposito di questa tua necessità artistica?
Dopo dieci dischi coi Marlene vissuti con totale e reale spirito democratico, sentivo sensato e giusto cercare di portare le mie idee di canzone in territori che non avessero paura di approfondire le mie inclinazioni, che come ho spiegato con dedizione poco sopra non sono solo noise e Sonic Youth.

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