“Passai parte del 1969 in studio a completare Hot Rats […] Avevo prodotto, almeno negli Stati Uniti, un altro disastro commerciale. Un disco tutto strumentale, tranne una canzone con Captain Beefheart alla voce! Proprio lui, che non è un cantante! Perché sprechi così il tempo prezioso dell’America, testa di cazzo?”
Con queste parole Frank Zappa ricorda Hot Rats nella sua autobiografia (The real Frank Zappa book, 1989) quasi dimenticando che quello pubblicato il 10 ottobre del 1969 è stato forse l’album più importante e famoso della sua vastissima produzione. Si tratta della sua seconda prova da solista, dopo aver licenziato sette dischi in tre anni, per lo più assieme ai Mothers of Invention. Sciolta la prima formazione della band, in seguito al disastro commerciale di Uncle Meat nell’aprile 1969, Zappa cerca nuove strade per sviluppare lo stile freak con il quale ha elevato la bizzarria a forma d’arte mediante canzoni dalla struttura assurda, testi satirici resi con vocalità stravaganti e sperimentali, ‘rumori di scena’ e noise suonati. Zappa, forte anche delle nuove possibilità offerte dal registratore a sedici piste dei TTG Studios di Hollywood, che gli consentono di aggiungere in sovraincisione strati di strumenti a fiato e tastiere suonati dal fidato Ian Underwood (unico membro delle Mothers a seguirlo nella nuova avventura), si orienta decisamente verso il jazz, reclutando un gruppo di musicisti dal corposo curriculum, come il bassista Max Bennett, già attivo, tra i tantissimi, con Stan Kenton, Ella Fitzgerald, Coleman Hawkins, Quincy Jones. La band viene completata da Paul Humphrey e John Guerin alla batteria, Don “Sugarcane” Harris (al quale Zappa è costretto a pagare la cauzione per farlo uscire dal carcere dove è detenuto per droga) e il francese Jean-Luc Ponty al violino, infine, Don Van Vliet, meglio noto come Captain Beefheart, per l’unico brano cantato.
Il jazz, del resto, non è un’assoluta novità per Frank, che ha pubblicato il suo primo album Freak out (1966), per la Verve, storica etichetta jazz. L’embrione del jazz-rock compare già nel successivo Absolutely Free (1967) con il lungo assolo del flauto di Bunk Gardner che si sviluppa sulla ritmica rock di Invocation And Ritual Dance of the Young Pumpkin. Ancora, in Uncle Meat (21 aprile 1969), Ian Underwood Whips It Out, la ‘presentazione’ di Ian Underwood che racconta il suo provino di ingresso nella band, è una furiosa incursione nel free jazz, mentre King Kong, coi suoi 18 minuti di durata, anticipa già gran parte degli sviluppi del genere nel decennio successivo. Già. Genere. Perché Hot Rats è solitamente indicato come il primo album di jazz-rock, che anticipa di quasi sei mesi la consacrazione del genere resa dallo storico doppio album di Miles Davis Bitches Brew (30 marzo 1970). Le esplorazioni in tal senso si dipanano già nel corso del biennio precedente, da Third stone from the sun, di Hendrix, ai primi album di Blood, Sweet & Tears e Chicago Transit Authority, ma il merito di Hot Rats sta effettivamente nell’aver centrato l’obbiettivo di un album compatto interamente dedicato alla ‘fusione’ di due mondi che nel 1969 ancora fanno fatica a incontrarsi, mettendo da parte, anche se non del tutto, la sua dissacrante verve in favore di una esplorazione puramente musicale.
Lo si sente sin dall’iniziale Peaches en Regalia, nella quale Zappa condensa, nello spazio di appena tre minuti e mezzo, una quantità di fraseggi, stili, strumenti, soluzioni e variazioni sul tema, d’avanguardia quanto lieve e orecchiabile, che ne fanno un vero e proprio standard fusion. Memore del riff insistito di Trouble every day, dall’album di esordio, Willie the Pimp (letteralmente Willie il pappone) comincia come ruvido rock blues, affidato alla corrosiva voce di carta vetrata di Captain Beefheart, degno epigono di Howlin’ Wolf, che offre una magistrale e brutalmente credibile interpretazione del pappone del titolo, col suo slang da luridi bassifondi (‘Twenny dollah bill (I can set you straight) / Meet me onna corner boy ‘n don’t be late / Man in a suit with a bow-tie neck / Wanna buy a grunt with a third party check‘). offrendo con la sua sguaiata rassegna di ‘articoli’ in vendita anche il titolo all’album. Son of Mr. Green Genes è un riarrangiamento strumentale di Mr. Green Genes da Uncle Meat., che evidenzia la continuità con la produzione delle Mothers, dalla quale Zappa recupera la complessità compositiva, data dalla giustapposizione di parti talvolta anche aspramente in dissonanza, dilatando liberamente la misura dei numerosi assoli. Autentico jazz da club arriva con il contrabasso che introduce i fiati fumosi di Little Umbrellas, ottenuti attraverso numerose sovraincisioni di tastiere e fiati da parte di Underwood, mettendo in scena una grande orchestra che aggiorna il sound delle big band di Ellington e Basie alle ardite sperimentazioni del secondo quintetto di Miles Davis. The Gumbo Variations è una torrenziale jam in cui tutti i solisti si cimentano sul ritmo sostenuto, dalle forti influenze blues che informano persino gli assoli di violino di Harris e Ponty, che a tratti ricordano il ritmo sincopato di un’armonica a bocca. E dopo il lungo sfogo viscerale l’album torna nel campo della ricerca avanguardistica con le trame complicate di It Must Be a Camel, che, parafrasando il titolo, conduce l’ascoltatore attraverso il faticoso saliscendi delle dune del deserto verso l’oasi ambita di una musica nuova.