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L’orso ‘nnammurato – Sollo & Gnut

L'orso 'nnammurato - Sollo GnutPer chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
(Fabrizio De André, Smisurata preghiera)

Muoversi in direzione ostinata e contraria. L’album che, dopo il primo duetto con Capitan Capitone, i tanti live, la scrittura di nuove canzoni e l’EP Hear my voice, vede finalmente insieme le firme di Alessio Sollo e Claudio Gnut Domestico è un gesto ribelle di anarchico amore. Nel momento in cui musica e libri diventano liquidi, flussi di dati che viaggiano in rete e il singolo da playlist prevale sulla complessità degli album, i due musicisti partenopei pubblicano addirittura un libro disco, su tradizionale supporto cartaceo e compact disc. Ma non sono fermi nel passato o estranei al mondo attuale, chiusi in una dimensione personale che rifiuta categoricamente il dilagare dei social come Joanna Newsom. Al contrario, lo spunto per quella che ormai è ben più di una semplice collaborazione, viene proprio dalla quotidiana scrittura di Sollo che riempie senza soluzione di continuità la sua pagina Facebook, e da ultimo anche Instagram, di versi, poesie e aforismi. Parla per lo più d’amore, ma c’è posto anche per Sarri, tossicodipendenza, la ferrovia Cumana e piccole storie ordinarie, raccontate con una sua maniera speciale priva di fronzoli, con la cruda durezza del punk, attitudine continuamente rivendicata. Ma anche con delicatezza, ironia dissacrante, accettazione disperata di un destino ineluttabile, malinconia e romanticismo degno della canzone storica napoletana dei vari Libero Bovio, Di Giacomo, E. A. Mario. Una tradizione ben nota a Claudio Gnut quando innamorato delle parole dell’amico comincia a musicarle, prima in solitudine poi condividendo il progetto con l’ignaro paroliere, ignaro al punto di non riconoscere i suoi stessi versi una volta messi in musica, racconta divertito Sollo. Ne viene ora fuori una splendida sintesi, più compiuta e a fuoco del precedente EP, un compendio di quello che a questo ritmo rischia di diventare uno Zibaldone. Un lavoro editoriale organico, dalla copertina alle biografie dei due autori affidate ancora ai versi: una descrizione affettuosa del carattere di un amico e un apocalittico ricordo d’infanzia, turbato da un senso di colpa che è invece una brutale protesta. È un lavoro che vuole lentezza, calma meditativa e quiete per gustarne a pieno la ricchezza verbale e sonora, come indicano le scherzose ‘Istruzioni per l’uso‘ predisposte dal duo con ironia. Quella che si respira nell’allegro ritmo di ‘Nu bicchiere ‘e vino e nel suo basso sincopato e disteso, laddove il mood dell’album preferisce più di frequente la malinconia di Tutt’a vita annanz’, esaltata dal fraseggio dolente del violino di Michele Signore, in una narrazione che si muove tra ricordi, rimpianti e aspettative: ‘m’è paruto comme ‘o primmo juorno ‘e scola / quanno tieni ancora tuta ‘a vita annanz‘. Era già emersa nei live dei SolDo e si conferma qui la presenza ingombrante di Napoli, la sua musica, la sua lingua, la sua gente. ‘A mossa sembra quasi una canzone antica ritrovata in uno spartito impolverato, mentre Creaturo si fonda su una strofa teatrale in cui emerge tutto l’istinto partenopeo di Sollo, l’eco ancestrale di un’anima popolana, proiettata nel presente dalla gamma di suoni che avvolgono la voce nel ritornello. Ma è Girasole sott’a luna la più emblematica in tal senso, con gli espliciti richiami alla Nuova Compagnia di Canto Popolare di De Simone, la maschera lignea di Peppe Barra, le movenze da teatro dei pupi di Giovanni Mauriello, la quasi mistica emotività e il suono della terra che resero grandi album come Li sarracini adorano lu sole (1974). Lo si vede non solo nel canto di Sollo, ma anche nella struttura armonica del brano con le sue frasi calanti, tuttavia non c’è alcun intento di riedizione anastatica, quella che mettono in campo Gnut e Sollo è una musica naturale e spontanea, parte di un codice genetico che continua a vivere sotto la cenere di questa città e dei suoi cantori. E come sempre nella sua storia accoglie suggestioni remote, come la lira pontiaca di Michele Signore che aggiunge un esotismo che ricorda la world music di Peter Gabriel. L’album ha infatti un respiro internazionale che risale dalle trame basse di chitarra di Inferno, rivelando la passione per Nick Drake, attraverso ritmi e armonie dixieland, con Sollo che pare Louis Prima, mentre tuba e tromba, suonate da Ciro Riccardi e Alexander Cerdà, si inseguono come gli oranghi dispettosi de Il Libro della giungla di Walt Disney (1967). E risale accelerando verso un Paraviso posto tra i Nirvana con la spina staccata e i White Stripes tirati nel buio di un blues malato, con l’eco della dissacrante descrizione che ne diede Pino Daniele. Riferimento costante, come dimostra la chiusura in parata di chitarra elettrica e mandolino di Ciarlatano, brano che unisce l’ironia di Carosone coi vocalizzi schizofrenici del primo Lucio Dalla e si apre in un ritornello corale come una festa di piazza d’altri tempi. La malinconia del rimpianto è leggera e la Votta ‘o vient’, verso Uocchie senza core, ballad da birreria dove cantare in coro, pinta nella mano, dell’amore perduto, dello smarrimento condiviso, perché ‘niente più è sicuro / sul’ che m’e lassat’. E sullo stesso vento si innalza il crescendo circolare e beatlesiano di Vulesse vulasse, solare rotondità che avvolge come una calda coperta di mandolini, archi, chitarre e flicorni, mentre per gli inconsolabili c’è Robba mia, una serenata al chiaro di luna, vento vibrante in un canneto, passione che annebbia, desiderio esplicito come un blues (si tu chella che voglio / dint’a stu mare ‘e fuoco). Una vocalità intensa che inonda Me faje murì, la dolce ninna nanna di un risveglio dolente (è dummeneca ma me pare lunnedì / scarfa poco ‘o sole a marzo / è dummeneca ma fatico ancora), la luce tenue di una fisarmonica e il dramma di una voce implorante. Come quella di chi spera di essere amato, una voce lacerante, quella di Gnut quando sul timbro sudamericano del suo guitalele canta ‘si ‘e notte song’io Ll’ultimo penziero /primma ca l’uocchie tuoje se fanno ‘o viaggio’. Bisogna chiudere gli occhi. Assaporare. E aspettare con ansia il prossimo pensiero di questo splendido duo.

Credits

Label: ad est dell’equatore -2019

Line-up: Michele Signore (mandolino, mandoloncello, violino, viola, lira pontiaca, percussioni, arrangiamenti archi e plettri) – Marco Caligiuri (batteria e percussioni) – Valerio Mola (contrabbasso) – Luke Caligiuri (basso) – Gianluca Capurro: chitarra elettrica, cori) – Daniele Coffee (pianoforte, rhodes) – Claudio Gnut (chitarra acustica (#Ciaccarella), voce, cori, percussioni, marranzano, fischio e guitalele) – Alessio Sollo (versi e voce) – Ciro Riccardi (tromba, flicorno) – Brunella Selo (cori) – Luca Rossi (tammorra) – Alexander Cerdà (basso tuba) – Andrea Tartaglia (cori) – Dolores Melodia (fisarmonica) – Monia Massa (violoncello) – Maresciallo A. Capurro (pernacchio)

Tracklist:

1. Tutta ‘a vita annanz’
2. ‘Nu bicchiere ‘e vino
3. Girasole sott’a luna
4. Inferno
5. Paraviso
6. Uocchie senza core
7. Creaturo
8. ‘O ciarlatano
9. ‘A mossa
10. Votta ‘o viento
11. Robba mia
12. Vulesse vulasse
13. Me faje murì
14. Ll’ultimo penziero

 

Link:
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