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Capitan Capitone e I Fratelli della Costa @ Scugnizzo Liberato NA, 8/04/2016

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Lo Scugnizzo Liberato è gremito, l’ex Carcere Filangieri trabocca di una folla variopinta che si riversa volontariamente nelle sue stanze, nei suoi cortili diruti, nella sua loggia ariosa, per il gesto simbolico e concreto di occupare una struttura di repressione nelle mani del potere e trasformarla in un centro di vita e di cultura per la gente, teatro di concerti festosi come quello messo in scena dalla ciurma guidata con spirito anarchico da Daniele Sepe.
Il clima si surriscalda già con l’esibizione del gruppo Bateria PegaOnda che scuote la sala mescolandosi al pubblico in un vortice danzereccio di percussioni e ritmi brasiliani travolgenti.
Con l’arrivo dei Fratelli della Costa il palco diventa un galeone corsaro. Vestiti da pirati i musicisti suscitano più ilarità che timore, spargendo buon umore con la messa in scena quasi integrale (mancano all’appello Aldo Laurenza e Mario Insenga) dell’album appena pubblicato; una esecuzione che è soprattutto una festa, una celebrazione gioiosa della musica, dello stare insieme, della condivisione e delle passioni più profonde dell’intero collettivo.
Sollo, ad esempio, pare più un locandiere buongustaio che un pirata e pertanto è ancora più sorprendente l’energia viscerale che sprigiona quando inizia ad urlare. Punk. Perché si chiarisce da subito che la serata sarà all’insegna dell’anarchia quando la ciurma intona in coro I fought the law nella versione dei Clash (ed è l’unica vera cover in un concerto che, trattandosi di Sepe, è stracolmo di continue citazioni), scatenando un pogo infernale che si placherà solo alla fine del concerto. E la coralità della ciurma-collettivo è la chiave dell’intera serata, ne è prova straordinaria la rilettura di La valse du Capiton, in cui i temi portanti che nell’album erano affidati a fisarmonica e sega musicale si tramutano sul palco in un coro coinvolgente, da perdere la voce. Una coralità energica, ma anche ricca di sfumature e armonizzazioni, grazie soprattutto al contributo delle due coriste, Sara Sossia Sgueglia (che guadagna la ribalta con una eccitante Spritz e rivoluzione) e Martina De Falco, le uniche a tenere un certo “contegno” durante l’esibizione, forse anche per uscire indenni dal contatto con quella “ciurma di masnadieri”.
Tartaglia è Sandokan, capelli arruffati e gilet, salta da tutte le parti ed è vocalmente infaticabile, un vero front-man, anche in un combo che rifiuta gerarchie. Coinvolge l’intera sala nel ritornello di Le range fellon, che tutti accompagnano muovendo le mani come le chele del granchio, in una versione dilatata fino a raddoppiare la sua durata, anche grazie a virate reggae e al contributo dub di Capone, perfettamente a suo agio nelle vesti di filibustiere.

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Gino Fastidio è vestito da Jack Sparrow, ma il suo ruolo è più simile allo squinternato che sul finale di Animal House fugge rubando un’auto della polizia. Questo, tuttavia, non gli impedisce di imboccare sempre al punto giusto la strada del microfono, preciso come un metronomo, concedendosi anche invettive senza peli sulla lingua contro i politici e la TV.
Dario Sansone interpreta con divertente ironia la parodia del pirata che alle spade e gli arrembaggi preferisce un buon ‘barile’ di rhum. Suo buon compagno è Nero Nelson, l’unico ad avere il nome perfetto per la serata, che nel cuore dell’esibizione piazza come una bomba interiore la sua toccante Bambolina.
Gnut è il diafano custode di un vascello fantasma, vive tra le ombre delle retrovie e serve vino ai sodali, ma la sua anima s’infiamma e prende nuovamente vita quando si fa avanti per trasformare il fraseggio calante de L’ammore ‘o vero in un riff corposo, che apre il brano all’organo soul di De Paola, che assieme a Paolo Forlini alla batteria e Davide Aftzal al basso costituisce l’ossatura robusta della band. Li affianca validamente Alessandro Morlando che all’elettrica sembra un giovane Keith Richards, nell’aspetto e nell’approccio corsaro alla sei corde. E dai La Maschera arrivano anche la voce e la chitarra acustica di Roberto Colella, un assalitore della prima linea di versatilità eclettica, che passa con disinvoltura dalle sue parti dell’album, cantate o “recitate”, alle ruvide melodie balcaniche di Jovano.
Per i bis Capone diventa uno stregone voodoo mentre cavalca la sua scopa elettrica junk. Proprio una scopa trasformata in “chitarra” elettrica per la intro hendrixiana di Lisca di pesce. Con ‘O sciore e ‘o viento Sansone trascina il pubblico con la sua leggerezza, mentre Sepe infila nell’assolo il tema di Tarantella del Gargano, il suo brano della vita, seguito da Gnut che regala al pubblico l’ultimo momento di tenue romanticismo con Dimmi cosa resta.
Per il gran finale è proprio Sepe a prendere il microfono e intonare con voce roca, quasi commossa, il canto degli schiavi liberati Pexinhos do mar, e per una sera siamo forse davvero meno schiavi, e più liberi, felici e fratelli.

Foto di Alessio Cuccaro

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