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Strange days – The Doors

recensione_thedoors-strangedays_IMG_201604Stati Uniti D’America, estate 1967. Il successo del primo album, The Doors (Gennaio 1967), ha sconvolto le gerarchie e le regole dell’industria musicale USA. Negli anni del San Francisco sound, vissuti all’insegna del peace & love della controcultura hippy, i Doors avevano mostrato una direzione diversa. Tenendosi ben lontani da quel movimento di “armoniosa ribellione”, non c’era traccia, nelle loro canzoni, di pace & amore così in voga in quell’anno. Quello di Morrison era un amore malato, peccaminoso, senza pace. Si toccavano temi che poco facevano gola agli artisti dell’epoca, ma che toccavano l’anima a chi non aveva trovato riparo nella controcultura hippy. Grazie a questo consenso la band raggiunge il secondo posto nelle classifiche Billboard. L’immagine ribelle del gruppo ed alcuni episodi alle prime apparizioni ufficiali consolidarono il nascente mito, spingendolo a dati di vendita inaspettati. La geniale intuizione di portare i Doors in studio e le felici conseguenze economiche della registrazione indussero la casa di produzione Elektra a supportare la band per il secondo album ovvero Strange Days, che vide la luce nel Ottobre 1967. Tutta la qualità decadente e visionaria del progetto prende forma nelle tracce di quest’album privato di stereotipate hit mangia classifica. Strange Days dà in pasto al mondo tutta l’alienazione dell’individuo, la sua irreparabile solitudine e desolazione quotidiana. Ma questa tragicità, in cui la voce di Morrison trova la sua definizione, riporta alla luce un fondo di tranquillità, di resa.
Sorretto da innovazioni e cambiamenti tecnologici, Strange Days ci scaraventa subito in un panorama fatto di aria densa dove una mente disorientata intraprende un viaggio narcotico e riflessivo. La title track, con aria sognante e rarefatta, ci disvela tutta l’alienazione dei versi di Jim come una premonizione inconsapevole del futuro: “Strange days have found us, strange days have tracked us down, they’re going to destroy our casual joys, we shall go on playing or find a new town“; l’atmosfera è cupa, lisergica, come nebbia ovattata del dormiveglia, dove le stratificazioni sonore costruite in studio segnano indelebilmente l’inizio del rituale. Il Vox di Manzarek ricama ragnatele persiane e l’ingresso di Densmore dà vita ad una sezione incalzante che brucia in fretta come un fuoco che non ha più ossigeno, mentre la struggente rassegnazione del poeta è travolta dall’assenza di ogni speranza che porti fino al domani. Arriva poi la trasposizione in musica di Alice nel paese delle meraviglie, You’re Lost Little Girl, scritta da Robby Krieger. Ed è infatti la sua chitarra a dilatare armoniosamente i suoni con delicati arpeggi, introducendo la calda voce di Jim che ripete: “ti sei persa ragazzina… me lo dici chi sei?”, come il Brucaliffo dell’opera di Carroll che chiede ad Alice “cosa essere tu?”. E come la risposta di Alice era stata la non consapevolezza della propria essenza (“non so nemmeno io, signore, mi son trasformata tante volte oggi”), allo stesso modo, nella canzone, la piccola sembra essere all’oscuro della peccaminosa natura, facendo della canzone occasione di riuscitissimo doppio senso. Love me two times, l’amore affrontato in maniera rock e con un cantato potente, tanto da proibirne l’ingresso in radio. Canzone che introduce alla parte più sperimentale dell’album con due episodi brevi e fondamentali. Unhappy Girl svela un’introduzione ipnotica di piano che ripropone gli aspetti più psichedelici della band, cavalcando versi che racchiudono la chiave di lettura dell’intero album: l’impossibilità di scoprire e vivere se stessi; Horse Latitude resterà per sempre oscura nel suo significato, perso nella follia del genio morrisoniano, ma mostra chiara la sua forza nel suono evocativo della parole tipico dei reading lisergici, accompagnate dal suono forte e confuso degli strumenti che ne ingigantiscono l’appeal suggestivo.
La sesta traccia è una delle primissime canzoni composte da Jim, Moonlight Drive. I versi evocano il tema dell’acqua come scenario di evasione, dove un’iniziale possibile fuga amorosa si intreccia allo strisciante desiderio di porre fine a tutto come estremo atto. Dal ritmo insolito e poco convenzionale, la canzone è ricca di influssi blues ampiamente bilanciati con incursioni nella psichedelica pura. Un viaggio notturno dove amore e morte si mescolano, proteggendosi l’un l’altro. Quella voce diventa una sentenza di eterna inadeguatezza… albatro, alieno mai fatto uomo. I versi graffiano le mura più profonde dell’anima. Emarginazione psichica figlia dei viaggi acidi che reinventano la realtà perennemente ostile. Emarginazione sociale per chi non rientra nei canoni della normalità.
Testo triste e potente quello di People are strange, canzone di rara originalità musicale arricchita dall’inconfondibile organo a tracciare stimmate psichedeliche.
My Eyes Have Seen You è costruita sulla convivenza armoniosa e melodica di Manzarek e Krieger, che si scambiano i ruoli da solita. Testo legato a sottintesi peccaminosi ed attimi di puro rock ci riportano al sound del primo album, ma con forza poetica ed evocativa diversa. Metafore continue e disarmanti mescolate a passaggi ritmici sinuosi, a tratti dissonanti.
I Can’t See Your Face in my Mind viaggia in un’atmosfera sognante, apparentemente distesa e rallentata, segnata da versi che narrano di separazione amorosa, resa dolorosa, consapevolezza della fine nello specchio dei ricordi. Canzone che riporta in primo piano la voce penetrante ed assoluta di Jim.
Ed arriva poi la prova monumentale che trasforma, liberandosene, lo stereotipo della canzone di “3 minuti”. Preludio alle “preghiere americane”, senza tecnica vocale, ma semplicemente grida tragiche ed incantevoli racchiuse in un climax potente ed onirico: “quando la musica è finita, spegnete la luce”. Un cantato fatto spesso di parlato, musicalmente, invece, pergamena strutturata e complessa che solo la psichedelica può generare. Chitarra volutamente distorta e sconveniente, basso come semplice linea di accompagnamento, drums tribali che fanno da eco ai versi, organo che invoca la trance dell’arreso poeta.
Visioni che santificano l’inutilità dell’esistenza se priva di primitive passioni. Volutamente registrato in presa diretta, questo è l’apice dell’essenza musicale della band. Sigillo di un album magico e testamento di un poeta che da quel momento si allontanerà irreversibilmente dal suo mito per nascondersi come uomo ferito e debole nelle iperboli dell’acool.
Eccolo il senso di una pietra miliare della storia della musica: incapacità di adattarsi a questa esistenza, spasmodica ricerca di un vuoto dove frenare i propri demoni. Un senso che poggia su una potenza lirica e di sound in alchemica fusione.

Credits

Label: Elektra Records 1967

Line-up: Jim Morrison (Voce) – Robby Krieger (Chitarra) – Ray Manzarek (Tastiere, Basso nelle tracce 4 e 10, Marimba) – Douglas Lubahn (Basso nelle tracce 1, 2, 3, 6, 7, 8, 9) – John Densmore (Batteria)

Tracklist:

  1. Strange days
  2. You’re lost little girl
  3. Love me two times
  4. Unhappy girl
  5. Horse latitudes
  6. Moonlight drive
  7. People are strange
  8. My eyes have seen you
  9. I can’t see your face in my mind
  10. When the music’s over

Link: sito ufficiale

Strange Days – streaming

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