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Il nostro Bowie

Il ricordo condiviso della redazione di LostHighways.it

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Dal 10 di Gennaio sono diventate innumerevoli le iniziative per commemorare il grande David Bowie. La notizia della sua morte è stato un fulmine a ciel sereno, ancora difficile da metabolizzare per i tanti fan, per i numerosissimi estimatori. L’ultima trasformazione di Bowie lo vedeva protagonista di un disco di rara bellezza, l’ultimo suo dono al pubblico, Blackstar.
La redazione di LostHighways ha pensato a quale potesse essere il modo migliore per omaggiare un artista così rilevante nel mondo moderno dell’arte. Prima di tutto però, con coerenza rispetto al principio di condivisione che anima ogni nostra azione, abbiamo pensato di raccontarci tra noi quali fossero i ricordi legati a David Bowie. Ognuno di noi ha un proprio livello di approfondimento dell’opera di Bowie, ad ognuno è “arrivato” in modo differente. Per quattro giorni abbiamo fatto girare i nostri pensieri via email, prima di tutto per noi, per scoprirci in quelle note che non si spegneranno mai. Questo è il nostro ricordo, nudo e crudo, in continua evoluzione: un fermo immagine amaro.

Non ho un ricordo diretto di Bowie: non ero una sua fan accanita, ma quella del Duca Bianco è sempre stata una presenza costante nelle mie passioni (musicali e non). Ricordo che, a cavallo tra le medie e le superiori, ho scoperto i Queen. Erano i miei primi approcci con il rock e lì credo di aver incontrato per la prima volta David Bowie, grazie alla collaborazione nel brano Under Pressure. Poi è arrivata l’epoca del grunge, delle band arrivate da Seattle e dintorni e, ancora una volta, ho ritrovato Bowie grazie ai Nirvana e alla loro splendida cover di The man who sold the world. Andando avanti con le mie scoperte musicali, ho iniziato ad ascoltare i Bluvertigo e, più avanti, i Placebo. Nei discorsi di Morgan e Brian Molko rientrava di continuo il nome di David Bowie, anche attraverso collaborazioni, perciò va da sè che le mie passioni siano sempre state influenzate da lui.
Il ricordo più bello che ho di Bowie, però, è legato al cinema. Uno dei miei film preferiti di sempre, Velvet Goldmine, si ispira a lui, al suo Ziggy e al periodo glam, di cui il Duca Bianco è stato uno dei precursori. E poi c’è Labyrinth, che ho amato durante la mia infanzia, tanto da farlo poi vedere anche a mia figlia. Ricordo che, quando lei aveva poco più di due anni, non andava mai a letto se prima non la prendevo in braccio e le facevo vedere Jareth che canta Magic Dance o la scena del ballo di Sarah.
| Katia Arduini 

Per me David Bowie è stato uno tra i tanti artisti appartenenti alla mia adolescenza musicale. Uno dei tanti che mi ha fatto crescere musicalmente, che mi ha fatto appassionare alla musica e al quale mi sono ispirato per cercare di comporre dei pezzi con la mia prima band.
Vista la mia età, l’ho potuto seguire solo nella fase finale della sua lunga carriera, però ho apprezzato tanti suoi album; in particolare quello che più sento mio è Heroes. Ricordo bene anche le sue parti in diversi film, una cosa che mi ha sempre stupito ed affascinato molto.
Infine il ricordo più attuale: quello della mostra fotografica all’Ono Arte di Bologna. Ricordo di aver passato parecchie ore a leggere tutte le descrizioni della vita di Bowie e a gustare le tantissime foto presenti. Il mio ricordo è questo, semplice però comunque presente e vivo.
| Davide Guarini

Con lui se ne va un altro pezzo della mia adolescenza.
Labyrinth, un’amicizia unica e Stardust.
È stata una strada tortuosa
senza te nel labirinto, amica mia
con i tuoi occhi che volano via
assieme al barbagianni, alla finestra.
Elisa Des Dorides

Forse dovrei mettere le cose in ordine, forse potrei, forse, ma non voglio farlo.
Imbraccio l’acustica e urlo tremante Rock’n’roll suicide, ma “gimme your hands” mi rimane in gola. Un attimo di calma e passo alla Lettera ad Ermione, la calda ballata dell’amore infranto, dell’amore che aspetta, nella solitaria West Coast d’Albione, prima che il vento cambi. E penso alle discussioni coi compagni di gruppo su quale album fosse il migliore, se Ziggy Stardust, il cui nastro ricco di bonus tracks ho consumato, o Hunky Dory, che anni dopo avrei ascoltato per intero seduto sul divano di casa con mia figlia tra le braccia.
In una sera magica era in riva al mare, sulla spiaggia che il metallo fuso non è riuscita ad annullare, cantando Quicksand voce e dodici corde ha alzato in perfetta spaccata una gamba verso gli astri, mentre occhi giganti ci rotolavano addosso, macinati dalla batteria infaticabile, il fischio circolare dell’elettrica. La sua presenza. La sua forza. Il suono di una voce. La voce di un solo uomo che dà vita alle voci di molti. Un concerto marchiato nella memoria. Una dolce nostalgia. Tommy Stone che si guarda allo specchio e rivede con rimpianto Brian Slade e la sua gioventù sfiorita. Il vero Bowie che si specchia nel suo sé immortale, che credevamo immortale, e che invece non rimpiange, come potrebbe? Come un vampiro, quella notte che non dormimmo perchè Miriam si sveglia a mezzanotte. Ma lì era la vittima fedele e dannata e i vampiri noi a bere il suo sangue.
Mio padre che mette Space Oddity sul piatto mentre la macchina del sole viene giù, e quella copertina magnifica che avevo spesso tra le mani, dal terrificante richiamo, quel fulmine rosso e blu che squarcia un volto alieno, il cui corpo evanescente non era troppo diverso dal mio. Cosa si celava dietro una simile immagine? Nella mia dimensione progressive quell’assolo di piano, coi suoi esotismi e le sue dissonanze, era la perla più preziosa.
Feste esilaranti ballando senza freno sul riff schizzoide di Sweet thing (reprise), i folli coretti di Chant of the ever circling skeletal family, le luci scintillanti di Dead man walking, che in fondo era l’autore di Let’s dance e Magic dance. Avevo nove anni e quel film ha forgiato come pochi il mio immaginario. Il rovescio, il tempo fuor di sesto, la magia, Escher, il labirinto, pupazzi in carne e ossa che il digitale non sa superare, il fantasy, il ballo, romanticherie, ironie bizzarre, il potere illusorio e l’illusione in una bolla infranta da una sedia scagliata via che manda tutto all’aria, perché ‘tu non hai alcun potere su di me’.
Tu, proprio tu, che invece lo avevi. Lo hai.
| Alessio Cuccaro

Bowie per me c’è sempre stato. Non ricordo un inizio. Ricordo solo dei momenti in cui lui era colonna sonora. Era nelle mie compilation su cassetta da regalare alle persone a cui tenevo, nel pomeriggio del mio primo bacio, nel mio primo viaggio in macchina, nel posto in camera mia dove tenevo le cose più preziose, gli album comprati coi risparmi, quelli consumati dagli ascolti.
Ma ricordo benissimo la fine (che poi fine non sarà mai), questo Blackstar tanto atteso, che sembrava avere il mio nome, e il suo respiro in ogni parola e tra una parola e l’altra, e pensare “questo è un album definitivo, un capolavoro” per poi sapere qualche giorno dopo che tutti quei respiri si erano dissolti, per sempre, nei nostri. Bowie è stato ed è per me un valore universale, un uomo che mi aiuta a comprendere le mie paure, la grandezza e la fragilità in un unico essere, bellissimo ed elegante, che è sempre stato eterno. Che è nato eterno.
| Luciana Manco

Ero in un treno freddo ed affollato: stavo lasciando momentaneamente la nebbiosa pianura padana per concedermi un weekend nella mia Firenze. Con la testa appoggiata su di un finestrino appannato viaggiavo, pensavo e leggevo. Leggevo una breve intervista a Bowie sul suo ultimo lavoro: “Elena, sveglia, è uscito l’album ieri, proprio nel giorno del suo compleanno. Ci muoviamo a comprarlo?”. E così è stato. Sono scesa dall’Appennino Express, mi sono rifugiata nel mio negozio di dischi preferito e mi sono messa in tasca Blackstar. Come ogni album di Bowie, COMEOGNIALBUMDIBOWIE, al primo ascolto non riesco mai a capirlo. Al secondo tentativo ci tiro fuori qualcosa; al terzo inizio a sognare. Bowie su di me ha sempre avuto un potere immaginifico, come pochi al mondo son riusciti. Blackstar mi ha accompagnato fino al risveglio (traumatico) del lunedì mattina, quando, intorno alle 7.30, con gli occhi pallati sulla mia fida tazza di caffè, ho iniziato la rassegna stampa quotidiana, fino ad arrivare a quello che non avrei mai voluto leggere. Mai. Ci ho messo un bel po’ per realizzare, un bel po’. Il caffè, nel frattempo era diventato imbevibile, di un amaro insostenibile, come insostenibilmente amaro era diventato quel lunedì. E’ sempre spiazzante quanto la mente ricordi anche i più piccoli particolari se collegati ad un evento che ha deviato la linea normale della nostra quotidiana esistenza. Bowie per me era l’unico visionario rimasto al mondo. Un visionario fiero, intelligente, poetico ed ammaliante. Era una rockstar, una delle poche ancora credibili e consapevoli. Il resto rimarrà per sempre tra me ed i suoi dischi.
| Elena Panchetti

Non sono un’attenta conoscitrice della vita e delle opere di David Bowie. I miei ricordi su di lui riguardano essenzialmente i brani più celebri, la Magic Dance di Jareth, Re dei Goblin in Labyrinth e la scoperta e l’ascolto dell’immensa Sweet Thing qualche sera fa. Ma mi piacerebbe ricordarlo soprattutto con il brano al quale sono maggiormente affezionata, Changes, poiché racchiude, al di là dell’essere un inno al trasformismo di Bowie, una chiave di lettura più profonda e collettiva legata alla continua lotta per il superamento di quel senso di smarrimento che ti assale davanti ai cambiamenti più difficili della vita.”Ch-ch-ch-ch-Changes (Turn and face the stranger)
| Maria Concetta Botrugno

Quando ho letto della tua morte stavo facendo colazione. Mi ero svegliato da poco, fuori il cielo era splendido e soffiava uno strano vento, forte ma caldissimo per una giornata di pieno inverno. Davanti alla tv mescolavo i cereali nello yogurt mentre il giornalista svolgeva la rassegna stampa. Con gesti delle mani evidenziava parole sulle pagine dei quotidiani ingigantite nel touchscreen al suo fianco. Io spettinato, vestito con una vecchia tuta, lui in giacca e cravatta a leggere di politica ed economia noncurante della frase che capeggiava su sfondo rosso appena sotto di lui: E’ MORTO DAVID BOWIE.
Cellulare in mano, corro ad aprire i siti di informazione online e non trovo nulla. Mi sposto su Facebook nella pagina ufficiale del Duca Bianco e trovo conferma di ciò che speravo fosse l’ennesima bufala.
Eri morto davvero, appena due giorni dopo la pubblicazione del tuo album. Non lo avevo nemmeno ancora comprato.
E’ così strano quando muoiono le persone famose: in alcuni casi provi enorme fastidio per l’incredibile tam-tam mediatico provando disprezzo per l’enorme attenzione data al personaggio popolare di turno a differenza del vicino di casa stroncato da un qualsiasi malore; in altri casi vorresti che il mondo si fermasse in preghiera. Nessun suono, nessun movimento. Diamine, state fermi. Tutti. E’ morto Bowie. Oggi non si può lavorare, non si può studiare, ridere, scherzare, mangiare… è morto Bowie.
Eri morto davvero ed io, che non sono mai stato un tuo enorme fan, stavo male; soffrivo più di quanto avrei potuto immaginare.
Mi sono chiesto come mai, e forse pian piano l’ho capito.
Prima della tua morte non avevo nessun tuo disco originale: me ne vergogno un po’. Per qualche motivo non ho avuto la fortuna di incontrarti nel momento giusto della vita. Questa è una cosa che mi è capitata con diverse band e artisti: alcuni se non li incontri in un preciso momento poi non riusciranno mai a diventare profondamente tuoi. Tu, Lou Reed, Iggy Pop, Morrissey, e altri che non sto ad elencare, non fate parte del mio bagaglio formativo essenziale; voi siete arrivati dopo a scombinare un po’ le carte ma non mi avete plasmato, creato, distrutto e poi creato di nuovo come altri, invece, sono riusciti. Ma non te la prendere, è solo questione di tempismo e la colpa sicuramente è tutta mia.
Mi sono comunque accorto che tu c’eri tantissime volte. Eri dentro alle persone al mio fianco, ti adoravano. Eri con qualche brano nelle compilation da ascoltare in auto nei lunghi viaggi e nelle notti calde parcheggiati con le portiere aperte. Eri nelle pubblicità in tv. Eri nei film che in tanti mi dicevano di guardare ma che io evitavo perchè quando sento parlare troppo di qualcosa poi mi scoccio e ne fuggo. Eri nei libri che leggevo, mentre si narrava la tua incredibile vita. Eri perfino nei pessimi documentari in tv a tarda notte, quei documentari nei quali si presentavano le prove della tua vera identità da vampiro, un essere immortale, pensa! Eri nella voce di Kurt Cobain mentre cantava The Man Who Sold the World in quell’Unplugged in NY che mi straziò l’anima. Eri nell’aria, insieme ad un altro campione, quel giorno a Venezia quando Ben Harper e Eddie Vedder cantavano spalla a spalla Under Pressure. Eri in qualche vecchia apparizione in RAI. Eri insieme agli Arcade Fire sul palco a cantare Wake Up! Eri in una bellissima mostra fotografica del tuo amico Sukita alla galleria ONO di Bologna. Eri nelle locandine dei concerti ai quali non sono mai stato (mi maledico!). Eri nella cover di Heroes ad opera dei Quintorigo che ho ascoltato migliaia di volte. Eri sul palco degli Afterhours una sera nella quale suonarono Quicksand, non ricordo quando ma ricordo la bellezza. Eri presente anche quella mattina del 10 Gennaio in quello strano caldo vento… Wild is the wind, cantavi.
Eri e sarai sempre in tutti i tuoi dischi, nella storia della musica e dell’arte perchè pochi come te hanno saputo interpretare la contemporaneità ed il futuro con l’istinto feroce proprio dei geni.
Tu ci hai lasciato con un disco mostruoso, Blackstar, e dipingendo una stella di nero ci hai insegnato la differenza tra il colore e la luce.
| Emanuele Gessi

Ritorni sempre e ritornerai sempre.
Avevo dieci anni quando entrasti nella mia vita nelle vesti del re dei Goblin, ballando una Magic dance nel mezzo di un labirinto insieme a dei pupazzi stile Muppets.
Ci rincrociammo anni dopo attraverso la cover acustica di The Man who sold the world, realizzata in maniera magistrale da un mito della mia adolescenza Kurt Cobain, a tua detta migliore anche della tua originale.
Eri nell’atto finale prequel Twin Peaks: Fire Walk with Me di una delle prime serie televisive che mi aveva incollato allo schermo.
Poi ritornasti nella colonna sonora di un film Strade perdute che ho amato e che mi ha ispirato un sito di musica ma questa è un’altra storia.
Ci sei sempre stato dietro le colonne sonore di serie TV (Life on Mars, Ashes to ashes) e trasmissioni televisive perchè la tua attitudine di comporre canzoni pop è l’unica che si può paragonare a quella dei Beatles.
Poi sono stato io che ti ho cercato, c’è stato un periodo che ti ho studiato come si fa al liceo con un poeta o uno scrittore. Ho ascoltato tutta la tua discografia. Ho visto tutti i tuoi video. Ho visto tutti i tuoi film e così ho capito che ogni tuo disco era stato il prodromo di un genere che si sarebbe suonato cinque anni dopo. Ho scoperto i riferimenti letterari che si celavano dietro tue canzoni. Ma soprattuto ho amato le tue maschere, eredità della tua prima arte, quella del mimo e del teatro. Ecco tu hai portato il teatro nel mondo della canzone leggera e l’hai fatto nella maniera più artistica possibile. Il fatto di sconfiggere la morte con un ultimo disco uscito il giorno del tuo 69° compleanno non è stato altro che l’ultimo atto di una commedia del ritorno che è stata la tua vita nella mia vita, nella nostra vita. Da quel palco scenderemo tutti ma pochi sapranno lasciarlo come hai fatto tu. Ciao Ziggy.
| Vladimiro Vacca

Il contatto con le tue certezze non lo perdi mai in un colpo solo ma poco alla volta. Poco alla volta perdi tutto. Da quando inizi a perdere a quando hai perso tutto vivi in età strana, fatta di confusione e dettagli sfumati, rumori e feedback emozionali. In quella età stramba in cui iniziavo a sentirmi lo scarabocchio che sono ora, Bowie tirava fuori Outside.
Quale migliore colonna sonora alla mia confusione.
Di allora e di adesso.
| Cristiano D’anna

Sono del 74. Fatti due conti, appare evidente che la mia formazione musicale sia stata segnata dall’ultima rivoluzione che il rock abbia saputo innescare: il grunge. Se mi chiedete di Bowie, appare altrattanto evidente che Cobain mi abbia svelato il potere di una cover e la bellezza di Bowie. Sì, certo che parlo di The Man Who Sold The World e dell’Unplugged in New York. Ed è anche ovvio che da bambina il Duca Bianco mi abbia stregata con Labyrinth. Poi ci sono stati i Queen, i Placibo, gli Arcade Fire. Possono sembrare dettagli. Invece, no. Non era il mio artista preferito. Eppure, c’era. C’era sullo sfondo dei colori che mi sceglievo, che la vita mi sceglieva, qualche volta. Questo accade solo ai grandi. Esserci. Essere icone. Essere sostanza. Essere forma. Essere un linguaggio. Essere uno spirito del tempo. Essere un manifesto culturale ante litteram. Al di là dei ricordi, Bowie resta un mistero. Mi fa paura la sua sfida alla morte. Mi fa gelare il sangue la stesura della sua uscita di scena, come giocando a scacchi con la morte, vincendola nel modo più criptico e articolato possibile. Ha usato una forma di esoterico indovinello nella gestione degli ultimi giorni. Ha giocato con i simboli religiosi e con la sua stessa iconografia. Di fronte alla corruzione del proprio corpo ha innalzato la torre di un’immortalità così umana da stravolere.
| Amalia Dell’Osso

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