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Il senso delle cose perdute: intervista a Dimartino

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Cesare Pavese, l’importanza della terra e il legame che si chiama radici, le cose perdute, le rondini, gente che parte e che torna, torna al senso profondo dell’appartenenza. Quando un disco ha un moto emotivo che l’attraversa e lo porta a innescare processi di empatia e coralità, il miracolo si compie con una levità che è propria solo di certi talenti. Tutto funziona: il segreto della melodia, la bellezza dei testi-immagini, la vocalità pulita e dolce. Un paese ci vuole ha molto di letterario, e non perchè chiami in causa il veggente delle Langhe. Ne abbiamo parlato con Dimartino, uno dei più promettenti e validi “autori” di questi anni.

Cominciamo da Cesare Pavese. Cominciamo da La luna è i falò. Tutto il disco esprime un legame con l’autore e la sua opera quasi fosse una sorta di rivelazione, di illuminazione di un sentimento che dovrebbe riguardare ogni essere umano. Mi racconti quando hai incontrato Anguilla e il suo mondo di ricordi?
Lo incontrai a quattordici anni in estate, poi lo rividi alla maturità e infine lo conobbi meglio un po’ di mesi fa. Sono state tre letture diverse de La luna e i falò, non solo perché io avevo età diverse ma anche perché il romanzo non tende a rivelare tutto subito ma svela i segreti a poco a poco.

In tutto il disco si respira, nei testi e nei suoni, una fortissima componente umana che rende il significato complessivo universale. Ti sei subito reso conto della forza espressiva ed emotiva di Un paese ci vuole?
Sento che molti ragazzi hanno bisogno di raccontarmi la loro storia, il loro rapporto col paese di origine, le loro mancanze. C’è un qualcosa di corale ed emotivamente coinvolgente che avverto quando parlo di questo disco con la gente. E’ una sensazione che non avevo mai provato così forte con gli altri miei dischi.

La dimensione geografica. La localizzazione della storia personale e di quella di una popolazione è lo spirito dell’app che è stata sviluppata per proporre lo streaming del disco. Mi dici di questa iniziativa? La trovo molto importante, coniuga un messaggio antico con la modernità del mezzo…
Esatto, mi piaceva proprio questo, sfruttare le nuove tecnologie per veicolare un messaggio poetico. Abbiamo scelto trecento paesi italiani, e con un sistema di geolocalizzazzione abbiamo fatto in modo che lo streaming del disco partisse solo se l’ascoltatore fosse fisicamente, con uno smartphone o un tablet, in uno dei paesi che abbiamo indicato. Questo per invitare le persone a visitare i paesi, i paesi hanno bisogno di essere visitati, c’è bisogno che la gente ne parli. Devo dire che ha funzionato, i ragazzi che hanno scelto un paese per l’ascolto, mi hanno scritto, mi hanno mandato foto. Molti hanno approfittato delle vacanze di Pasqua per girare parti d’Italia interna che non conoscevano. Si è sviluppato il concetto di coralità di cui parlavo prima.

Stare lontano ti ha portato più vicino al tuo paese. E questa riscoperta è avvenuta attraverso tuo nonno. Raccontami la geografia e la memoria che hanno accompagnato la scrittura delle canzoni…
Mio nonno è un ottimo narratore di cose perdute. Ha una capacità di raccontare che in molti oggi abbiamo perso. All’inizio mi trovavo su un autobus in Messico, nello stato di Oxaca, stavamo attraversando dei monti e a un certo punto ho avuto la forte sensazione di trovarmi a sedici ore di aereo di distanza, al centro della Sicilia, questo è stato il primo impulso per scrivere queste canzoni.

Quei pochi secondi riempiti dalla voce di tuo nonno, mentre il mare l’accompagna, è uno dei momenti più toccanti di Un paese ci vuole. Sembrano condensare tutto in parole come: memoria, nostalgia dolce-amara, sorriso, famiglia, terra. Posso dire che quei secondi danno, più di tutti i versi messi insieme, un tocco letterario a questo disco?
Sì , in quel momento si supera la teatralità e la finzione della storia e si entra in un momento di verità, se consideri che mio nonno non sapeva neanche di essere ripreso.

Sottolineo ancora l’aspetto emotivo del disco, risultato di immagini densamente poetiche nella loro levità, di suoni in crescendo nella loro delicatezza, di spazi melodici di raro talento. E la sensazione dominante è che tutto esploda dolcemente con una spontaneità fuori dal comune. Cosa hai provato a lavoro finito? Come hai percepito tu il tuo disco?
Non ho un buon rapporto con l’ascolto dei miei dischi, tendo a sentirne sempre gli aspetti tecnici legati al suono e questo non mi fa assaporare le canzoni. Magari fra un paio d’anni ti so dire.

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Io dico che Un paese ci vuole ha una narrazione che non perde ritmo. Questo vuol dire che tutte le canzoni hanno una luce speciale che le rende preziose. Hai realizzato un disco compatto e allo stesso tempo di undici singoli. Esagero?
Non so ancora, devo capire cosa fa di un singolo un singolo!

Come una guerra la primavera. Prima traccia, primo singolo. Come una porta che si apre. Dimmi del video che l’acocmpagna…
Volevamo fare un piccolo documentario sull’umanità, montare una serie di immagini che svelassero piccoli dettagli dell’umanità. L’ha girato una ragazza del mio paese che si chiama Manuela di Pisa, aveva già fatto il video di Cercasi Anima.

Pavese amava il “mito”, al punto da riuscire a farne un processo addirittura creativo. Il mito attraversa la storia dell’uomo, è vivo. Molti dei suoi personaggi sono come degli archetipi. Ho ritrovato questo anche nelle tue canzoni. E forse Una storia del mare ne è l’esempio principale…
Ci sono degli elementi che riportano al mito in quella canzone, “un cane che abbaia ad Ulisse”. Essendo siciliano mi viene difficile liberarmene.

Parlami delle collaborazioni con Cristina Donà e Francesco Bianconi…
Entrambi sono artisti che stimo parecchio per svariati motivi. Mi piacciono i cantanti genuini, timidi che descrivono con piccole immagini grandi verità Le collaborazioni con loro sono nate in modo naturale, senza forzature.

La rondine. Quest’immagine è lirica, è grafica, è reale. Vuoi parlarmene?
Le rondini della piazza del mio paese mi hanno sempre affascinato, uccelli strani e sfuggevoli che da bambini era impossibile intrappolare. Un giorno un vecchio seduto su una panchina mi disse che una di queste rondini era suo figlio, questa cosa mi è rimasta impressa.

Parliamo della melodia. Parliamo della tradizione della canzone italiana. Parliamo di tutto questo fluire in un universo che si declina nel folk…
Mi piace molto la melodia e negli anni sto imparando a gestirla. E’ una cosa solo italiana che secondo me va salvaguardata, bisogna solo fare attenzione a non abusarne.

Il pianoforte è quasi il principe di questo disco. Lo sostiene e poi accoglie tutto un mondo d’altri suoni. Dimmi di questo strumento. Dimmi come chiama gli altri…
Lo è per alcuni pezzi, ma non per altri. Ad esempio l’arpeggio di Come una guerra la primavera l’ho scritto con la chitarra, così come altri pezzi di questo disco. Però di certo all’interno della band ha un ruolo fondamentale, soprattutto dal vivo, regge tutto.

Come saranno i live?
Nel live saremo in trio come sempre, insieme a me ci saranno Angelo Trabace al pianoforte e Giusto Correnti alla batteria, io avrò il mio solito basso. Sarà un live potente, diverso dai dischi, un live corale, molti pezzi li cantiamo a tre voci.

Cosa auguri a questo disco?
Che venga ascoltato con attenzione e che stimoli una discussione sull’importanza di riconoscere il proprio luogo di origine.

Come una guerra la primavera – Video

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