Siamo alla fine degli anni settanta, a New York. Correvano altri tempi. I giovani avevano un nemico da combattere: il controllo sociale dei mass media e delle organizzazioni religiose. Quel sentimento di ribellione era nato anni prima sotto le spoglie pacifiste dei figli dei fiori. Quei fiori sarebbero marciti presto, avrebbero perso il loro valore simbolico e sarebbero diventati borchie, colori acidi e capelli aguzzi di odio e rabbia verso quel muro di alienazione che il sistema consumista delle grandi metropoli industriali innalzava per reprimere l’Es ancora vivo delle nuove generazioni. Tale battaglia si giocò sul tavolo dell’arte e della musica. Un espressionismo dirompente per far deflagrare le pseudo-certezze divulgate dal florido ceto medio usando la plasmante e sovrana televisione fu necessario. Questa scure fu il Punk. Il mostro dissacratore ebbe vita breve, implose con i suoi stessi stereotipi. Il sistema prima lo pubblicizzo e osannò, quindi lo fagocitò nelle sue manifestazioni estreme. Spolpandolo di sostanza, fece resistere solo quella vendibile, pura, impotente attitudine del punk generando una nuova cultura popolare di nome New wave. Il punk perse questa battaglia ma non la guerra. Era arrivato anche nelle periferie e nei bassifondi delle metropoli. Proprio in quei luoghi era sopravvissuto ed aveva partorito segretamente una controcultura, un movimento artistico-musicale in grado ancora una volta di opporsi allo status quo dominante: la No-wave. Tale movimento si proponeva di essere il gemello meno educato e meno elitario dell’altro figlio sopravvissuto che fu il post-punk. La no-wave accentuava la matrice trasgressiva del padre punk. Affondava le radici ideologiche in un nichilismo estremo nato da una repulsione-reazione al traffico di alienazione e consumismo che stava contaminando i costumi, l’arte in senso lato. Chi riuscì a rappresentare in una sola figura i tratti fondamentali del movimento No-wave? Un solo nome. Una sola donna: Lydia Lunch.
L’eroina di New York riusciva ad incarnare l’azione di contrapposizione al mainstream della cultura pop ortodossa. La contrapposizione si doveva svolgere estremizzando l’elemento grezzo del punk. Più spazio all’atonalità, al rumorismo, alla dissacrazione della forma canzone con lo spoken word. Dietro le percosse degli strumenti c’erano i pugni scagliati contro la cultura popolare consumista e commerciale. La personalità di Lydia fu talmente esplosiva che toccò ogni forma d’arte, dalla musica alla poesia arrivando persino al cinema di trasgressione di firme del calibro di Richard Kern. Nel giro di trent’anni Lydia è stata capace di mantenersi sempre integra nella sua espressività di artista underground a 360 gradi collaborando con artisti come Sonic youth e Nick Cave. Nel 2009, dopo anni di silenzio, è ritornata con un nuovo progetto: Big sexy noise dove è riuscita a sintetizzare gli elementi essenziali di quel movimento che fu la No wave. Un cantato confinante con quello spoken word accompagnato da un sound denso di blues, punk e noise, ricco di stilettate di free sax. Questo spettacolo, questo documentario di un’epoca, questo museo interattivo toccherà le maggiori città italiane in questo inizio di primavera del 2011. Visto il triste periodo socio-culturale che sta affrontando la nostra repubblica, avrà ancora di più un senso seguire questi concerti e risvegliare la Lydia Lunch che in ognuno di noi. A Napoli toccherà il 3 aprile, al Mamamu ovvero nel cuore pulsante del centro storico.
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