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La bontà trasforma le nostre vite in amore e desiderio: La banda

Il raggiungimento di una meta è trasformato dal perdersi in un percorso a cui l’anima s’abbandona, un cammino tracciato dai passi e dai canti, aperto e disegnato dalla musica. Il sentiero di incontri e turbamenti, di ri-conquiste e stupori inizia nel luogo in cui la perdita ha inizio a partire dallo straniamento. Otto uomini dalla veste azzurra, otto musicisti della banda della polizia di Alessandria d’Egitto si ritrovano in un luogo estraneo al contatto con una lingua estranea. La musica disegna così il primo passo del cammino attraverso il suono di lingue diverse che nel mescolarsi si fraintendono, si trasformano… il giovane violinista, aspirante trombettista e dongiovanni irriducibile per il quale Chet Baker fa le veci di Cyrano, pronuncia la destinazione cambiandola, perdendola.

L’inglese stentato nel dialogo lo porta a non farsi comprendere dall’impiegata della stazione, ma si fa suono afferrabile ed intelligibile quando diventa canto. My Funny Valentine si dispiega folle e bellissima tra i rumori dello scalo e i sensi danno inizio al gioco, al nascondimento, all’inganno mentre le parole dichiarano per ora solo un’identità, un’origine. Intanto però i suoni cominciano a legare, a tessere fili e con i fili strade, vie lungo le quali ri-trovarsi. Arabo, israeliano, inglese. Israeliano, arabo, italiano. Resta durante tutto il viaggio la musica delle lingue diverse, del loro intrecciarsi, il contrappunto ordito dalle loro sonorità. La Banda è attesa a Petah Tikva per l’inaugurazione di un centro culturale arabo, ma si ritrova a Bet Hatikva ed è da e in questa cittadina sperduta e deserta, visitata dall’autobus una volta al giorno, che s’addentra in Israele. Ventiquattro ore e un numero imprecisato di chilometri li separano dal concerto per cui sono in viaggio, ma capiscono ben presto che non potranno far altro che attendere, percorrere il tempo e non lo spazio, muoversi restando fermi.
Il cammino così continua disegnato dalla musica delle lingue che s’intrecciano, otto uomini vestiti del colore del cielo, una locandiera e due avventori formano un’orchestra di parole che si incontrano ed intuiscono. Dina (Ronit Elkabetz) svela l’inganno dei nomi delle città, il gioco della pronuncia che ha cambiato direzione e mutato l’andamento del viaggio, e sulle tavole mette cibo per i musicisti stanchi e traditi dal suono. La donna dagli occhi scuri rende chiare le parole ed insieme ai due clienti abituali decide di aiutare la banda, di ospitarla… e l’ospitalità diviene via via accoglienza. Con il suo seguito di valige e strumenti, il gruppo entra nelle case e negli spazi della città, nella sua gente. I minuti scorrono ed insieme ad essi scorre il viaggio che prosegue attraverso la musica dei gesti e dei silenzi, del carillon e del telefono, dei rumori e delle voci, della radio e del clarinetto, delle stoviglie e dei dissapori, delle confessioni e dei perdoni, delle carezze e dei baci, delle pene e dei segreti.
L’indisciplinato seduttore Haled (Saleh Bakri) si ritrova a dare una mano ad un impacciato giovane del luogo che proprio non riesce a comunicare con le ragazze, l’emozione gli uccide in gola le parole facendogli sentire nelle orecchie il rumore del mare, il fruscio delle onde che solo lui ode lo rende muto davanti alla donna. Dina intanto fa scoprire la città a Tewfiq (Sasson Gabai), colonnello nonché maestro d’orchestra, lo conduce al buio per vie e piazze aiutandolo ad immaginare giardini, confini ed orizzonti. Su di una panchina l’uomo ricambia la gentilezza svelandole cosa fa provare all’anima il movimento che dà l’avvio al concerto e quanto sia altrettanto intensa l’emozione vissuta durante la pesca perché l’amo che fende l’aria e tocca l’acqua è un altro inizio di un altro concerto, quello che vibra attraverso i giochi dei bambini, il vento e le onde, quello che si leva all’alba quando il mondo si trasforma in una sinfonia. Altrove, intorno ad una tavola, una famiglia vive il disagio di ritrovarsi di fronte a sconosciuti, sono stretti l’uno all’altro eppure distanti finché non si scoprono e trovano cantando Summertime, la intona una sola voce seguita poi man mano dalle altre, è un canto un poco sbilenco ma proprio nel suo essere stentato risulta incantevole, come una carezza timida, possiede la bellezza dell’incontro che avviene, dell’insieme che nasce. Prima che il sonno prenda il sopravvento insieme alla notte, nella stanza di una casa estranea, uno dei musicisti trova, grazie al nuovo amico, una possibile soluzione per la sua opera composta solo dall’overture, forse la sua musica potrebbe finire così, col suono di una camera animata da una luce accesa, da un bimbo che dorme e dalla solitudine. Si dispiegano, nel tempo dell’attesa, melodie e storie, note, parole e voci di oggetti. Musiche tradizionali arabe ed israeliane si alternano a Baker e ad armonie non udibili, con queste e con la luce Eran Kolirin, alla sua opera prima, fotografa e racconta anime e luoghi, cerca nelle sonorità e nella poesia la pace dell’abbraccio tra culture diverse. Lo sguardo coglie le figure e lo sfondo che gli è proprio, quel tessuto che appartiene loro e che le porta a co-appartenersi, tra le fibre di quella trama i suoni, segno invisibile di cui ogni fotogramma reca traccia. Habib Shehadeh Hanna ha curato la colonna sonora, componendo musiche originali e quadri sonori che, insieme alle visioni, scrivono e descrivono il viaggio, le storie e le anime… i suoni raccontano tanto quanto le immagini in questo lungometraggio fatto di linguaggi che si intrecciano, nutrendosi reciprocamente, disfacendo uno i limiti dell’altro per trovare nella complessità dell’unione possibilità, ampiezze e profondità altrimenti precluse.
Il 60° Festival di Cannes ha consegnato a questa deliziosa pellicola il premio Coup de coeur, il film ha ricevuto molti riconoscimenti, ma questo ne onora la sensibilità riconoscendogli la preziosa capacità di toccare il cuore con grazia. Quello di Eran Kolirin è un atto d’infinita tenerezza rivolto alla musica e alla musicalità degli incanti, riconoscendovi una forma d’amore, un filo luminoso che ricama la vite di sensi, che le unisce nei sensi. Quello di Eran Kolirin è un canto che si dissolve ricordando che “la bontà trasforma le nostre vite in amore e desiderio”.

Credits

Israele/Francia 2007
90 minuti
35 mm/1:85/Colore

Sceneggiatore e regista: Eran Kolirin
Direttore della fotografia: Shai Goldman
Sonoro: Itai Eloav
Costumi: Doron Ashkenazi
Scenografie: Eitan Levi
Colonna sonora: Habib Shehadeh Hanna

La banda – Trailer


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Un solo commento

  1. Focus impeccabile come sempre e mi ha incuriosito tanto…lo vedrò.

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