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This dream you’ve ridden on/Turns your world to explosions: Jeff Buckley

I love you, but I’m afraid to love you. In quanti stra-maledetti modi l’amore si può tirare fuori dalle viscere, dal centro di massa dell’anima, dalla bocca, dalle mani, dagli occhi che non vedono ma sentono e desiderano?
Quante deliranti possibilità sussistono per arginare il cappio della morte che stringe trasparente ogni gemito di leggerezza innescato dal sentimento più stupido, più amaro, più inutile, più dolce, più disarmante, più inguaribile? Qual è la via d’uscita dall’inferno della paura di vivere e lasciarsi vivere, di abbandonarsi e fidarsi?

Banalmente, non ci sono risposte. Non c’è logica. Non c’è deduzione. Non c’è appiglio. Non c’è orientamento nel labirinto delle sensazioni che coprono la gamma di tonalità infinite e che generano inondazioni di pulsioni oltre il bene, oltre il male… confondendo, depistando, corrompendo, dilaniando.
L’amore che veste il velo nero della morte. La morte che chiede purificazione nell’amore. Il gioco degli opposti. La danza dei paradossi. Senza squallore. Senza futilità. Perché nel dolore, nella consapevolezza, nella gioia che gocciola tristezza può strisciare equilibrio… grace.
Questa è una pagina dedicata alla musica che segue il corso della ricerca e dell’ispirazione.
Qui troneggia egoismo. Questa è solo un’alta marea di pensieri sconnessi, disordinati, senza pretese, senza aneliti didascalici. Questa è un’esplosione che si compie dopo una notte d’autunno destinata a morire nelle stelle dietro la nebbia. Una notte in cui un pensiero dominante spinge la verità di un’intuizione in un loop che accarezza il gioco dei “se”.
Dicono che un ragazzo sia morto dieci anni fa. Annegato in una delle vene del Mississippi. Voleva solo godersi una nuotata. Al diavolo le cavolate sulla dinamica dell’incidente. 30 anni. Pochi? Un peccato?
No. E non è una bestemmia. Che altro avrebbe dovuto fare? Cosa? Portava il peso di ciò che aspettava, sentiva disagio, inutilità, insofferenza, indolenza… nonostante una voce come poche. Quella voce non tesseva inni di gioia. Quella voce vagava alla ricerca di un altrove indefinito. Ogni sua canzone non era delirio di tecnica, non era sicurezza, non era mera interpretazione. Ogni sua canzone era una scoperta di acqua di fonte, tutte le volte. Occhi chiusi. Denti stretti. Un rantolo dal ventre, e poi su verso l’esofago, sosta tra la lingua e le difese fino ad esplodere, fuori… “There’s the moon asking to stay/Long enough for the clouds to fly me away/Well it’s my time coming, i’m not afraid to die/My fading voice sings of love,/But she cries to the clicking of time” (Grace).
Jeff Buckley era soltanto un ragazzo. Non era, non è un’icona. La morsa del mito non ha sfiorato la pelle bianca delle sue liriche, non ha sporcato il respiro di quella musica scritta in modo ossessivo, solitario, come un silenzio dal profondo. La celebrazione claustrofobica non ha graffiato la dolcezza sanguinante di quelle covers strappate alla tradizione come baci rubati ma voluti…
“I lost myself on a cool damp night/I gave myself in that misty light” (Lilac Wine – James Shelton).
Figlio di un tormento spento giovanissimo da un’overdose e accarezzato dal guizzo dell’arte pura: Tim Buckley. Musicista sublime e genitore d’abbandoni. Un uomo che ha scaraventato nella vita del suo seme il germe della tragedia antica… il destino dei padri non risparmia quello dei figli, reclama espiazione. Così, orfano di radici e dopo i primi passi di fatica, incontra/scontra la Columbia. 1993, Live at Sin-é: solo quattro pezzi incisi live. Due cover (Je N’en Connais Pas La Fin
Edith Piaf; The Way Young Lovers DoVan Morrison)e due trame lunari destinate a splendere per sempre sui rivoli di amore/morte: Mojo Pin“Precious, precious silver and gold/And pearls in oyster’s flesh/Drop down we two to serve and pray to love/Born again from the rhythm screaming down from heaven/Ageless, ageless and i’m there in your arms”; Eternal Life…“Eternal life is now on my trail/Got my red glitter coffin man, just need one last nail/While all these ugly gentlemen play out their foolish games/There’s a flaming red horizon that screams our names”.

E’ l’inizio. Due fiori dal profumo inebriante, destinato a generare metamorfosi di fragranze in Grace. 1994, un destino già compiuto… prima ancora della morte. Il resto è definito materiale postumo, da Sketches (for my sweetheart the drunk), al Live in Chicago (registrato nel 1995 al Cabaret Metro di Chicago ed edito nel 2000), a Mistery White Boy (una raccolta live), al Live à l’Olimpya (2001). Il 2007 lo ricorda con So Real: Songs From Jeff Buckley.
Grace è il punto mediano di una vita. Corpo nudo del talento. Lacrima e forza. Amore cristallizzato in forme fragilissime da aliti d’intonazione in viaggio verso il magma di un’anima che si spoglia, del tutto incurante degli occhi che scrutano. Grace, ovvero dieci passi sulle punte in equilibrio, dieci carezze a smarrire senza neppure sfiorare. Ci sono frammenti di poesia e note che rimangono ancorate al flusso del tempo e lasciano appena intravedere una bellezza diafana, leggera, pronta a rompersi e per questo affascinante. Mick Grondahl, Matt Johnson, Michael Tighe e Gary Lucas partecipano al rito, lo servono. Ma l’epifania è la voce, sinuosa, capace di lambire folk, blues, gospel, fino all’estasi di una solitudine assoluta mai scalfita da alcuna fruizione.
Amore, Rebecca. Morte, l’attesa di un compimento. L’amore che scoppia e strozza…
“This is our last goodbye/I hate to feel the love between us die/But it’s over/Just hear this and then i’ll go/You gave me more to live for/More than you’ll ever know/This is our last embrace/Must I dream and always see your face/Why can’t we overcome this wall” (Last goodbye). L’amore che sedimenta nella notte di un desiderio nella distanza: “But tonight you’re on my mind so you never know/When i’m broken down and hungry for your love with no way to feed it/Where are you tonight? Child you know how much i need it/Too young to hold on and too old to just break free and run…/It’s never over, she’s the tear that hangs inside my soul forever”(Lover, You Should’ve Come Over).
L’amore che smuove ogni fibra, che sa esser veritiero nonostante l’incompiutezza… perché un’intuizione sfiora le danze delle possibilità, tesse una dolcezza che è concreta, libera un sapore e lo attacca alla bocca dello smarrimento…
“Oh… that was so real/I love you, but i’m afraid to love you/I love you, but i’m afraid to love you” (So real). La paura più ovvia, quella che rende deboli, quella che annienta, ma che sa essere vertigine, perdita di perimetri di difese e di volumi di chiusure. Silenzio. Solo silenzio a guardare il dolore inevitabile dell’amore sul volto di chi indugiava prima di dar fiato alle sue viscere. Indugiava, cercava i colori di quelle che chiamano interpretazioni. Ma erano (sono) pezzi di vissuto dentro e fuori dal corpo. Hallelujah è una cover? No. E’ una scelta. E’ uno specchio che riflette un universo altrui. E’ l’atto di amore verso Leonard Cohen perché è ritoccata con visioni a occhi bassi, con stomaco contratto e apnee verso il centro di un disagio… Well, maybe there’s a god above/But all i’ve ever learned from love/Was how to shoot somebody who outdrew you/It’s not a cry that you hear at night/It’s not somebody who’s seen the light/It’s a cold and it’s a broken hallelujah”.
Corpus Christi Carol è una cover? No. E’ una scelta. Una partenza dal talento di E. B. Britten e un arrivo al centro di un sussurro dal profondo… “And on this bed there lyeth a knight/His wound is bleeding day and night/By his bedside kneeleth a maid/And she weepeth both night and day”. Britten… l’uomo talentuoso che aveva collaborato con W. H. Auden, vestendo di musica la domanda delle sue dieci (che coincidenza!) folk ballads degli anni ‘30… la domanda a cui Jeff Buckley ha dato qualche risposta: “When it comes, will it come without warning/Just as I’m picking my nose?/Will it knock on my door in the morning,/Or tread in the bus on my toes?/Will it come like a change in the weather?/Will its greeting be courteous or rough?/Will it alter my life altogether?/O tell me the truth about love”.

Video – So real Live

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10 commenti

  1. La perfetta celebrazione dell’unico dark angel!

  2. Ho incontrato la musica di Buckley per caso innamorandomi della sua poesia. Tu l’hai saputa raccontare nel modo migliore. Grazie!

  3. Ripercorrere ogni attimo con le tue parole è emozionante, toccante.
    Complimenti sinceri.

  4. …ce l’ho fisso nel raccoglitore del laboratorio.
    Buona musica, ottima musica per giorni ripetitivi. Era un grande.
    Grace è uno dei miei dischi da Top Ten di SEMPRE…

  5. …pure Amalia è una grande!!;)… si si si, inviterò questa bella anima che risponde al nome di Jeff Buckley, e che (tuttosommato) conosco troppo poco, a bere qualcosa insieme da qualche parte nei pensieri… parto da qui… grazie

  6. Silenzio. Per qualche minuto. Leggo in silenzio, in ascolto, in modo diverso – da dentro, dal lato di cuore che dipinge aquiloni che non osano volare. Il silenzio prima che si possa osare il volo.

  7. Complimenti Amalia; grazie di averci fatto conoscere Jeff, visto attraverso i tuoi romantici occhi.
    Il tuo è stato il modo migliore per parlare di lui che effettivamente è l’ultimo dei veri ROMANTICI. Ora se si parla di romanticismo si pensa solo a cene a luci di candele…niente di tutto ciò.

    Mi permetto di postare un filmato trovato su youtube…io ho assistito dal vivo a quel momento a Sesto al Reghena (PN). Concerto acustico degli Afterhours.

    Avete sentito quel terribile fischio dell’impianto di amplificazione? Mi piace pensare fosse Jeff.
    Manuel non si è scomposto.
    I brividi li ho tutt’ora.

    Credo che per questo Jeff Buckley venga considerato “un grande”…per i brividi.

  8. Manuel Agnelli è immenso. Sapevamo anche tutti noi della sua cover.
    Grazie per aver lasciato il link. Ci sta e come

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