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Synth punk di pancia: intervista ad AUT!

AUT

Continuiamo ad esplorare le preziose scoperte della rassegna Carne Fresca, Suoni dal Futuro. In questo caso approfondiamo il progetto AUT! ovvero Omar Carbonieri, un giovane operaio di Mantova che imbraccia la chitarra elettrica e, tra campionamenti e drum machine misti ad un cantato urlato, spara fuori tutto l’animo disilluso di una generazione soffocata dalla piccola provincia. Con due Ep autoprodotti nel 2024 Omar convince per quell’attitudine post-punk nervosa proveniente dalla fine degli anni settanta. AUT! spacca come gli storici pionieri del synth-punk, illuminato da Suicide ed The Screamers ma anche dai recenti Viagra Boys. Ha aperto la data di Firenze degli Afterhours per il tour del ventennale di Ballate per piccole iene ed ha mostrato una grande verve live. Conosciamo meglio questo punk dei nostri giorni!

Quando, come e perché è nato il tuo progetto musicale?
AUT! è una one-man band, maturata nella testa di un giovane operaio mantovano verso la fine della pandemia, quando subisce la rotazione delle canzoni del Festival sanremese dalla radio dell’officina. Qualcosa scatta: è l’urgenza di rappresentare l’altra faccia del Paese e della propria generazione; la voglia di rompere il quieto vivere ai margini di una provincia padana rimasta arretrata, tanto nel lavoro quanto nella mentalità dei propri abitanti; la ribellione verso le musichette, ingegnerizzate e assemblate a catena di montaggio da una ristretta cricca di autori, nelle quali si parla solo di amori persi o amori ritrovati. Vengono scritte tante canzoni (tutte in inglese), alcune vengono registrate e nell’Ottobre 2024 si comincia a suonare nei locali, armato di chitarra, microfono e basi.

Cosa significa “suonare” rock per un giovane com te?
Niente. Il rock è morto. È morto quando il dito di Kurt Cobain ha premuto il grilletto più di trent’anni fa. Successivamente ne è stato fatto scempio in diretta TV, nei talent e sulle radio “rock” di proprietà dei grandi gruppi mediatici, nonché nei costosissimi mega-festival estivi con decine di band, pit gold e birre da nove euro (o token) a bicchiere.
Il rock è stato il vettore che ha permesso alla spinta controculturale giovanile del secondo dopoguerra di cambiare la società e i costumi per poi, inevitabilmente, divenirne parte. Oggi la libertà sessuale, la droga, il rock’n’roll e i tatuaggi li troviamo ovunque, persino all’interno delle istituzioni.
L’attitudine punk è la chiave, il progresso in perpetuo rinnovamento, in grado di trascendere non solo le generazioni, ma anche i generi e le discipline. I dadaisti erano punk, come lo erano Andy Warhol e la fauna della sua Factory. “Le notti di Cabiria” di Fellini è punk.
Ciò che conta è creare controcultura dal basso, avere qualcosa di sincero da comunicare al mondo, essere avanguardia.
Il rock rimarrà uno dei tanti vettori da usare per comunicare determinate sensazioni, come il jazz o altre forme d’espressione che nel tempo hanno esaurito la loro spinta radicale iniziale, ma bisogna rimanere aperti al cambiamento, ad evolversi.

Quali sono nello specifico i tuoi principali riferimenti musicali?
Sicuramente la musica affonda saldamente le sue radici nel movimento punk e post-punk, sia anglosassone che tedesco, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Si aggiungono inoltre la crudezza del proto-punk, l’eredità di Velvet Underground e Rolling Stones, oltre ad un occhio vigile sulla scena attuale europea, con attenzione particolare verso Yard Act, Sleaford Mods e Viagra Boys.

Cosa significa per te sperimentare e mescolare le carte?
Significa non avere vincoli dettati dalle aspettative o dal genere. Il punto forte di essere una one-man band è che non devo scendere a compromessi né rispondere a nessun altro per le mie scelte artistiche. Posso aggiungere (o togliere) strumenti a piacere al servizio della musica,  non del musicista.
La tecnologia ora è uno strumento straordinario, soprattutto se approcciata con curiosità e ingenuità, bisogna stare attenti però a non perdersi nella sua complessità.

Cosa significa per te essere stato selezionato nell’ambito della rassegna “Carne Fresca, Suoni dal Futuro”?
Lo sto scoprendo in divenire. All’inizio pensavo si trattasse di una semplice occasione per esordienti di suonare in una grande città come Milano, in grande fermento per quanto riguarda la musica indipendente. In questi mesi invece l’iniziativa si sta allargando parecchio, oltre le mie aspettative.
Ciò che mi ha colpito fin da subito è stata la scelta di istituire una “rassegna” e non un “contest”: è bello quando viene intrapresa la strada opposta alla competizione, difficilmente conciliabile con l’espressione artistica.

Gli animi di Carne Fresca tipo Succi, Segale ed Agnelli ti hanno dato qualche consiglio?
Ho scambiato qualche messaggio con Succi, è sempre stato molto carino e disponibile. Con Agnelli c’è stata una stretta di mano e qualche parola prima del loro live. Segale non lo conosco.

Cosa rappresenta per te Germi LdC di Milano?
Il Germi è uno degli sparuti locali che propone musica live senza cadere nel meccanismo, dal ritorno economico sicuramente più costante, delle cover band. Ma è importante tenere in mente che non è l’unico.
Ciò che rappresenta il Germi è ciò che rappresentano le altre piccole stelle di questa galassia: la consapevolezza che l’underground è per definizione un settore di nicchia, costruito sul sudore e sui sacrifici, ma necessario non solo per soddisfare la naturale spinta verso la scoperta del “nuovo”, ma perché i cambiamenti più grandi hanno spesso riverberato partendo proprio dalle piccole realtà. Un piccolo club chiamato CBGB’s, un altro chiamato Roxy. Chissà quale sarà il prossimo.
Nel frattempo diamo la giusta riconoscenza alle persone che tengono questi spazi aperti e operativi tutte le settimane.

Com’è stato aprire un gruppo storico come gli Afterhours? Il fatto di ritrovarti con altre band in un cartellone così prestigioso ti fa sentire effettivamente parte di una scena? La vostra generazione concepisce questo concetto oppure vi sentite delle monadi?
Il concerto nell’Anfiteatro del Parco delle Cascine a Firenze è stata una data importante, non tanto per AUT! ma per il ragazzo che c’è dietro. Quando, da ragazzini, si inizia a suonare uno strumento i quattro scalini per salire sul palco, allestito nella piazza del proprio paesino per il saggio della scuola di musica, sembra l’impresa più difficile del mondo: ti lasciano il fiatone di cinque rampe di scale. Essere su un palco importante, supportato da una grande organizzazione, davanti ad un pubblico numeroso, attento e mentalmente aperto, pronti ad affrontare la situazione con la lucidità necessaria per divertirsi e godersi il momento è il vero traguardo.
È una bella sensazione poter condividere quest’emozione con tanti altri ragazzi da tutt’Italia, ma non la chiamerei scena. Una scena è definita da una contemporaneità tra le band, questo sì, ma alla quale va aggiunta un’affinità artistica (o di genere) e soprattutto la condivisione di ambienti, spazi o sottoboschi culturali comuni. Questi due criteri non possono essere soddisfatti prendendo delle band provenienti da tutta la Penisola in quanto il campione è semplicemente troppo eterogeneo.
Le scene in Italia esistono, però bisogna sapere dove cercarle, spesso con la lente d’ingrandimento.

Se un giorno qualcuno del mondo mainstream ti chiedesse di modificare radicalmente il tuo sound per raggiungere il successo mediatico, accetteresti compromessi?
Ed essere sfruttato per un paio di canzonette scritte da altri e venire accantonato nel caso i risultati non raggiungano i target di mercato? Non esiste. La fama non è mai rientrata nei miei interessi, tanto meno se effimera come quella che offre il mondo dello spettacolo mainstream. Ho già dei padroni nell’industria manifatturiera, quello che produco con la chitarra e con la batteria elettronica deve necessariamente essere un’espressione, quando non una vera e propria estensione, di me stesso.

Come ti rapportate all’attuale sistema di promozione fatto di doping su ogni canale social? Lo condividi in qualche modo oppure credi ci sia un modo per arginarlo?
Tutto dipende dai propri obiettivi. È sicuramente impossibile muoversi senza Instagram, anche solo per individuare i locali a cui chiedere di suonare.
Tutto sommato direi che la situazione non è disperata, le conoscenze strette di persona hanno ancora una certa importanza per muoversi nel mondo musicale, anche nell’underground.

Cosa significa costruire un’alternativa per te?
Essere sinceri, il pubblico se ne accorge quando ciò che stai comunicando viene da dentro e risponde ad un’urgenza, anche se canti in Swahili.
Quando la musica mainstream (come il pop e un certo tipo di rap e trap) viene imposta dall’alto, tramite volti selezionati via contest, talent e indagini di mercato; quando le differenze sonore tra una canzone e l’altra si assottigliano, sembrando costruite seguendo una checklist piuttosto che una spinta creativa; quando temi complessi, scomodi, che muovono critiche pungenti a noi stessi e al modello in cui viviamo, vengono nascosti sotto il tappeto o cooptati; allora è il momento giusto per un ritorno di fiamma, per una forza uguale e contraria, per l’alternativa, per il ritorno dell’attitudine punk.
Bisogna essere pronti a coglierla e a dargli il giusto risalto.

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