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Il tempo di una rinnovata libertà: intervista a Manuel Agnelli

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“Noi siamo fatti di tempo. Il tempo è la forza che ci dice chi siamo.”
Si rivelano così puntuali queste parole di Don DeLillo. Sembrano quasi la sintesi perfetta per il cammino fin qui percorso da Manuel Agnelli, uno degli artisti più audaci e completi per raggio d’azione e di visione. Ha segnato la scena del rock alternativo di casa nostra fondando gli Afterhours, contaminandosi e attraversando più di un trentennio sempre fedele ad un linguaggio di libertà foriero di rinnovamento e sperimentazione. Musica, televisione, teatro, radio sono i mondi che ha scelto di attraversare con uno sguardo lucido ed appassionato, generando occasioni di riflessione e confronto di cui quest’epoca ha un necessario bisogno. Ha avuto, negli anni, il coraggio e il desiderio di osare, spingendosi oltre i confini delle proprie sicurezze artistiche. Una figura da cortocircuito, pronta a raccontarsi perché il tempo che è riuscito a conquistare è il regno delle alternative che ha  saputo concretamente costruire. Fuori da ogni schema, lo scorso settembre ha rilasciato Ama il prossimo tuo come stesso, il primo disco solista, e si è poi lanciato nell’impavida sfida di vestire i panni del protagonista di Lazarus  (regia di Valter Malosti), l’opera rock scritta per il teatro da David Bowie ed Enda Walsh. In occasione dell’imminente tour che lo porterà in giro per le principali città italiane, ho incontrato Manuel da qualche parte in questo suo tempo speciale, per farmi raccontare ancora la sua voglia indomita di usare l’arte per essere libero. (Foto 1-3 di Michele Aldeghi, foto 2 di Fabio Lovino)

Ormai è da circa un anno che il tuo percorso artistico sganciato dagli Afterhours ti ha riportato alla dimensione del palco, tra concerti rock, con protagonisti i brani del tuo primo disco solista, e appuntamenti in teatri d’eccezione con lo spettacolo Lazarus. Mi dai un bilancio di questa svolta così importante?
Il bilancio non può che essere molto positivo perché sono tornato a fare scelte artistiche in grandissima libertà, quindi senza troppa progettualità e vivendo la musica giorno per giorno in maniera stimolante, improvvisando le cose così come arrivavano. Questo tipo di libertà mi mancava molto. Ho avuto un’ottima reazione del pubblico sia per il mio disco solista che per l’esperienza teatrale, e considera che Lazarus è stata una delle mie tipiche scommesse, rivelandosi uno spazio di esplorazione pazzesca. Ho imparato a muovermi su una diversa tipologia di palco, anche se sono appena all’inizio. Sono davvero contentissimo di aver intrapreso anche questa nuova strada.

Lazarus è stato accolto con un entusiasmante favore di pubblico e di critica. Cosa ti spaventava maggiormente all’inizio e cosa invece poi è diventato un punto di forza, replica dopo replica?
All’inizio mi spaventava l’idea di entrare in un mondo in cui i punti di riferimento non sono i miei, a livello di espressione ma anche di intenzione, proprio per quanto riguarda la voce perché si trattava di usarla diversamente dal solito, ma la sfida è stata proprio questa, è proprio questo il motivo per cui mi sono messo in gioco: volevo sperimentare con la voce. Inoltre mi spaventava tanto la memoria. È stato necessario imparare a memoria un testo, oltre ai versi delle canzoni. Mi sono reso conto di quanto questo esercizio di memoria sia funzionale alle intenzioni poiché, una volta che hai assorbito le parole, poi è molto più facile sentirle tue ed entrare nel personaggio. Ho studiato tanto all’inizio e non ero abituato a questo metodo, cioè a studiare tanto prima di fare delle cose. Ci sono tantissimi particolari professionali che poi mi riporterò nella mia dimensione di musicista, tra questi appunto la lunga preparazione, una dinamica che non mi appartiene, anche se so bene cosa significhi studiare poiché ho dedicato molto tempo al pianoforte classico. Però, sai, con la band le prove si concentrano nei pochi giorni prima del tour, e questo forse è un po’ un limite, ma alla fine è tutto relativo, non è mai veramente una questione di quantità, dipende da quello che si vuole e dai contesti. Per me, in questa fase della carriera, avere più tempo per provare si è rivelato importante.

L’ottima resa dei brani che hai cantato è dipesa dalla tua vocalità e dalla capacità di interpretazione, due aspetti che ti hanno permesso di entrare in toto nell’universo emotivo di Bowie, ma dimmi di più del personaggio.  C’è stato qualche elemento in particolare del lavoro di preparazione che ha fatto esplodere la tua personale versione di Newton?
Il malinteso più grande che c’è intorno a quest’opera rock è che sul palco io faccia Bowie. In realtà io non interpreto Bowie, ma uno dei personaggi dell’opera che ha scritto per il teatro insieme ad E. Walsh. Lo stesso Bowie ha interpretato un ruolo nel film The Man Who Fell to Earth, quindi un personaggio e non se stesso. Lazarus è una sorta di sequel in cui Newton appare invecchiato e in preda ad uno stato di crisi, ma è nelle mani degli attori che ne hanno dato e ne daranno le proprie versioni, questa è la natura del teatro. Quindi sul palco io non replico Bowie, ma interpreto un suo personaggio. Come dici tu, l’interpretazione riguarda Newton. Per certi versi è stato semplice per una questione anagrafica: la perdita dell’amore, l’abbandono, la solitudine, l’invecchiamento, lo smarrimento degli ideali e dei punti di riferimento, il pensiero della fine della vita sono tutti tormenti che in una persona di oltre cinquant’anni si ritrovano. Ecco perché lo stampo più da musical della versione di Brodway non mi era piaciuto: Michael Carlyle Hall, l’attore protagonista, non trasudava quel tipo di passato, almeno secondo me.
Diverso il discorso sulla parte del cantato. Eseguo i brani in scaletta in maniera rispettosa, a livello ritmico, di melodia e di intenzione emotiva, senza cercare di copiare ovviamente, ma affidandomi alla mia tessitura vocale che è molto simile a quella di Bowie. Tanti mi hanno detto che, chiudendo gli occhi mentre canto, hanno avuto l’impressione di ascoltare Bowie!

Sì, confermo. Anch’io ho avuto la stessa suggestione durante lo spettacolo…
Questo oltre a farmi molto piacere, mi ha facilitato la parte musicale.

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Dal punto di vista professionale ed umano cosa ha aggiunto l’esperienza teatrale al tuo profilo di musicista rock che tornerà in tour dal 1° luglio?
A livello umano, Lazarus mi ha dato la possibilità di una collaborazione serena, priva di tensioni. A livello professionale, posso dirti che la parte musicale si è rivelata fondamentale. Ho utilizzato una trama vocale abbastanza comoda per me. I brani di Bowie non sono affatto facili, ma è qualcosa di talmente insito nel mio DNA che alla fine è stato quasi semplice cantarli. Io per tendenza vado sempre agli estremi di quello che posso fare e lavorare a quest’opera mi ha fatto stare quasi meglio a livello espressivo. Sicuramente trasferirò questa ricchezza nella musica nuova che farò, non tanto nel tour imminente perché i brani in scaletta sono stati scritti ed editi prima di quest’esperienza. Voglio fortemente fare questo tour perché ho riscoperto un’intensa voglia di suonare senza i gigantismi dei grossi eventi che hanno tanto caratterizzato la musica degli ultimi anni e per cui se non fai San Siro, non esisti! Questo è terribile per me e quindi ho deciso di prendermi la libertà di fare un tour mosso soltanto dal desiderio di suonare senza il bisogno di una progettualità finalizzata ai grossi numeri.

Ama il prossimo tuo come te stesso è il disco che ti ha affrancato dal passato, sdoganando da una visione d’insieme la tua cifra stilistica, facendola chiaramente emergere anche agli occhi di un certo pubblico ostile. A distanza di mesi dalla sua uscita, qual è il sentimento che più si agita in te in vista dei prossimi appuntamenti tra arene all’aperto e grossi festival?
Parlando del pubblico, chi è ostile rimarrà sempre tale! È una condizione mentale che non dipende affatto da un’analisi oggettiva della musica che faccio. Purtroppo la gente si forma delle idee e le coltiva, paradossalmente andando a cercare le prove di quelle convinzioni. Sinceramente, non mi riguarda e non voglio che mi riguardi! Io volevo semplicemente fare un disco senza sentirmi condizionato da un progetto soffocante, pur essendo stimolante. Sai, con il tempo certe dinamiche diventano come degli steccati, ed anche gli Afterhours erano diventati per me come una gabbia dorata dove ormai dominava un linguaggio ben definito e una quantità di lavoro considerevole per tenere unito il progetto. Spesso questo sforzo mi suscitava dei dubbi. Perché era necessaria tutta quella fatica? Era un po’ come tirare un carro. Quindi per me fare un disco da solo è stato prima di tutto un atto di libertà. E, tra il feedback positivo da parte del pubblico e i vari premi vinti, forse tra i più importanti che io abbia raggiunto (David di Donatello e Nastro d’argento per La profondità degli abissi, brano che accompagna il film Diabolik; Premio Amnesty International Italia per Severodonetsk, ndr), mi sono anche liberato da un peso psicologico ovvero dal peso del brand, del progetto che funziona perché ha una storia e quindi una credibilità. La gente viene ai concerti perché vuole sentire certa musica suonata in un certo modo. Non c’è niente di male, anzi è bellissimo essere identificati con qualcosa, però per un artista può diventare un limite. Non ho cercato di fare qualcosa che non c’entrasse con me, il mio linguaggio musicale è rimasto riconoscibile, e questo dimostra quanto ci fosse di mio all’interno degli Afterhours. Ho voluto realizzare semplicemente un disco di libertà e, sai, questo bisogno non l’ho razionalizzato più di tanto e nemmeno voglio farlo. Vivo un momento di grande privilegio nel fare quello che desidero. Ho sempre fatto musica per realizzare quello che voglio nella vita e non ho vissuto per fare quello che voglio nella musica. Per me la vita è sempre stata più importante, ho usato la musica per sentirmi libero e vivere in quanto tale. Il mio disco rappresenta esattamente questo.

Ti accompagneranno gli stessi musicisti che hai scelto per i precedenti concerti del tuo percorso solista. Quindi il pubblico ritroverà sul palco: i Little Pieces Of Marmelade, Giacomo Rossetti e Beatrice Antolini. Rispetto al passato targato Afterhours, questa diversa dinamica delle parti cosa comporta per te dal punto di vista tecnico ed emotivo? Dall’esterno c’è stata proprio l’impressione di una maggiore libertà, immagino più consapevole proprio nelle prossime date…
Sì! Prima mi hai chiesto della questione dei lasciti relativi all’esperienza in teatro e io ti ho accennato a quelli personali. In teatro ho lavorato con un gruppo di trenta persone e in quattro mesi per 66 repliche non ci sono mai stati litigi né tensioni gravi, pur avendo un rapporto di confronto schietto. Questo modo sereno di vivere il tour per me è stata una novità meravigliosa. Ho sempre pensato di essere una persona molto tormentata e difficile sul piano professionale perché sono molto puntiglioso, insomma non leggero, e ho sempre pensato che la responsabilità di questa irrequietezza nei miei progetti fosse mia, invece ti dico che mi sono ricreduto perché nella dimensione del teatro ho avuto prova che molto dipende anche da chi mi circonda. Con la band che mi accompagna nel tour del disco da solista è la stessa cosa. Non mi è mai capitato di andare in giro con dei musicisti in maniera così armonica e leggera, credo che sul palco traspaia. Questa leggerezza mi ha liberato ulteriormente da un’idea che io stesso avevo di me e che naturalmente c’entra con il mio carattere e con il mio metodo di lavoro, però dipende molto anche dalle persone con cui entro in contatto.

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Puoi anticipare qualcosa del mood della setlist? Chi verrà ai concerti cosa deve aspettarsi?
Deve aspettarsi innanzitutto i pezzi del mio disco solista arrangiati per la dimensione live e, ovviamente, i pezzi degli Afterhours, come è già stato per i precedenti concerti. Stiamo parlando di pezzi che ho scritto io, quindi sono pezzi miei che ripropongo in maniera ancora più efficace rispetto al passato, alcuni sono stati rivisitati perché i musicisti sono diversi. Quelli che hanno una matrice più punkish o hardecore, tipo Dea, Lasciami leccare l’adrenalina, Veleno, questa formazione li suona con una furia che mi piace molto. Pensa ai due Little Pieces, hanno quell’attitudine nel loro DNA e la riversano nei brani in molto del tutto naturale, al contempo hanno anche una certa raffinatezza nel fare delle cose più complesse. Non mi interessa fare la cover band degli Afterhours, ecco perché non ho gli stessi arrangiamenti, non avrebbe alcun senso. I musicisti che compongono gli Afterhours sono dei grandi musicisti e la loro parte in alcune canzoni resta fondamentale, ma altre canzoni sono interpretabili in tante maniere, tra queste nel tour ne propongo una delle possibili.

A proposito della libertà, tu ne hai sempre dato prova, assumendo posizioni nette. E per libertà intendo soprattutto l’attitudine ad assecondare la propria fame, anche quando la convenienza del proprio “regno” (o comfort zone) indurrebbe scelte di comodo. Qual è lo svantaggio della tua libertà come artista?
La mia libertà come artista è in primis quella di andare contro il brand, come mi piace chiamarlo. Alludo all’idea che il pubblico si è fatto di te. All’inizio ogni artista cerca quel tipo di traguardo che coincide con una personalità precisa e riconoscibile, poi però si finisce con il sentirsene prigionieri e si cerca di andare in un’altra direzione. Negli Stati Uniti non è così, ci sono degli artisti che trovano una strada e la coltivano per tutta la vita senza sentirne il peso, penso a Keit Richards, Tom Waits, Johnny Cash. In Europa è molto diverso, c’è molta più inquietudine da questo punto di vista. Ci sentiamo subito inscatolati. Pensa a Bowie, a quante personalità ha cambiato nel corso della carriera, spesso in modo drastico e all’apice del successo, quindi non perché le cose non funzionassero più ma perché spinto da un’esigenza di rinnovamento, stimolato dall’energia percepita intorno. Per me è lo stesso, sono fatto così, mi piace cambiare e l’ho fatto anche poco, nel senso che ho tenuto il progetto Afterhours sempre in vita, difendendone il carattere perché ne sono stato e ne sono molto orgoglioso. Non li ho mai trasformati in un progetto di elettronica, di rag, di folk, di classica contemporanea, a seconda dei miei ascolti e delle mie inclinazioni del momento. Certo, ho avuto altri progetti non conosciuti come quello principale, ho suonato in due tour con Damo Suzuki dedicandomi alla composizione istantanea, ho fatto anche tour in trio come pianista classico insieme a violino e violoncello, ho suonato in progetti di diversa estrazione rock, ma non ho mai avuto l’esigenza di trasferire tutto quello che mi piace all’interno dello stesso progetto. Soprattutto non ho mai avuto la necessità di dover spiegare e giustificare al pubblico le mie scelte artistiche. E, ti dirò, oggi mi ritrovo davanti un pubblico che sta cambiando, sebbene all’inizio avesse un’immagine molto approssimativa di me. Molti ancora pensano che io sia quello che a torso nudo rotea il microfono sul palco e basta, questa è un’immagine che io trovo limitata e limitante…

Ricordo che qualche anno fa mi parlasti proprio di quest’immagine che proietta solo un aspetto di te, ma ne hai tanti altri possibili.
Infatti è così. Quell’immagine fa parte di me, negli Afterhours ho messo tanto di quell’ingrediente perché faceva parte del carattere di quel progetto, ma non vuol dire che io sia solo così. Sono un appassionato di letteratura, di cinema, di storia antica. Ho studiato pianoforte classico per tanto tempo, riprendendolo anche negli ultimi anni. Mi piace il jazz, soprattutto quello contemporaneo, anche se lo suono molto poco. E tutto questo mi stimola, mi spinge a cambiare e a non farmi rivedere poi in quel brand con cui vengo identificato, anche se però sono anche quello. Voglio che ovviamente quel progetto sia caratterizzato con orgoglio e con coraggio, però è un brand, appunto. Quindi quello che mi fa più paura è che la gente voglia solo quello perché ne è confortata, ma è come una dipendenza: vuole quel tipo di connotazione e se non la trova, si indispettisce perché vengono meno i punti di riferimento nella fruizione. Per un artista questa dinamica è la morte. Fare le stesse cose vuol dire morire, anche se il pubblico ne è contento. E aggiungo che prima o poi la morte dell’artista porta anche alla morte del pubblico. Gli Afterhours sono un progetto ancora vivo, ma per me ha assunto un altro significato. Voglio liberarli dall’idea di brand, e se non dovessi riuscirci allora lo userò proprio come brand, ma quando tutti i musicisti coinvolti e il pubblico stesso saranno contenti di usarlo in questo modo. Nel frattempo io rivoglio la mia libertà in pieno, a livello musicale e a livello artistico in generale. Sto facendo radio, cinema, teatro, tornerò a fare televisione, non ad XFactor, sia chiaro. Voglio continuare ad avere la libertà di sperimentare.

La musica è il tuo linguaggio principale, ma riesci ad essere un valido comunicatore anche usando altri mezzi. Vorrei che mi parlassi di Leoni per Agnelli, la tua trasmissione radiofonica, che in qualche modo ho trovato legata, per il mood e la mescolanza delle forze in gioco, al programma televisivo Ossigeno…
Sì, certo. Partiamo dal fatto che una delle grosse colpe della mia generazione è stata l’incapacità di passare le esperienze a chi è arrivato dopo, forse siamo stati troppo egoisti e concentrati su noi stessi. Con il passare del tempo è stato pessimo l’uso di quello che dagli anni 70 in poi si era costruito, ma anche di tutto quello che abbiamo costruito noi dalla metà degli anni 80 agli anni 2000, penso alle centinaia di club, decine di festival, le fanzine, i giornali musicali. Con l’arrivo di internet poi è stato anche peggio. Ci sta che una generazione si opponga alla precedente, ma non puoi distruggere tutto, dimostrando poi nei fatti un atteggiamento molto provinciale.
Ossigeno, Leoni per agnelli, la stessa partecipazione ad XFactor mi hanno permesso di prendermi uno spazio che ho vissuto come un’occasione per raccontare appunto la mia esperienza,  e quindi un punto di vista sulla musica e, in generale, su quello con cui entro in contatto, anche legittimato dalla mia età. Rispetto ad Ossigeno, più incentrato sulla musica nonostante testimonianze da altri ambiti, Leoni per agnelli si apre ancora di più, pensa agli ospiti tra gli scienziati, gli sportivi, oltre ovviamente gli artisti. Fa ridere l’espressione Nel mondo di Manuel, ma è un gioco ironico per alludere semplicemente ad un punto di vista. Se dovessi tornare in televisione, e spero accada presto, vorrò proprio continuare su questa linea: offrire appunto un punto di vista, ben al di là della musica, perché credo che ce ne sia bisogno. Non è detto che il mio sia giusto, però ci credo e mi espongo con passione e convinzione non perché sia l’unico possibile, anzi. Il problema non è che ci siano delle visioni, ma che ne manchino delle altre. Pensa a Sanremo o XFactor, la gente critica, ma l’alternativa dov’è? Cosa si propone e si costruisce concretamente? Per questo sono così arrabbiato con chi ha distrutto l’alternativa che c’era, vivendola da hobbisti provinciali, forse perché non hanno sudato per costruirla, non hanno preso le manganellate in testa, e per questo l’hanno fatta marcire non proteggendola e nutrendola. Però, come ti dicevo, è anche colpa della mia stessa generazione. Ai ragazzi queste cose vanno raccontate perché devono capire che è stato ed è possibile costruire le cose da soli, come aprire un locale per fare concerti, trovare un posto e occuparlo, come una casa disabitata, creare una propria etichetta e andare concretamente contro il sistema.

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Prevendite: www.ticketone.it/artist/manuel-agnelli

Per info:
Instagram
www.vertigo.co.it

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