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A Raccolta – 24 Grana

A_Raccolta_cover-2Tutti in cerchio, A raccolta. A guardare in faccia gli anni che sono passati dall’inizio del cammino. Ad una ad una, come vasi di creta plasmati con lo sfondo di una Napoli che fu e che ancora resiste, prendono corpo le dodici tracce di questa summa dei primi venticinque anni di carriera dei 24 Grana, band che mutua il nome da una moneta del regno di Ferdinando I d’Aragona, un conio di poco valore, a sottolineare la distanza da mantenere da un certo concetto di ricchezza materiale. Il titolo del disco gioca sulla necessità di prendere posizione di fronte ad un momento storico che richiede partecipazione massiva e sulla natura antologica di questo lavoro che pesca, con l’amo e non a strascico, nei precedenti cinque lavori (ad esclusione dell’ultimo La stessa barca del 2011), dall’esordio con l’omonimo EP del 1997 fino a quello splendido Ghost Writers dato alle stampe nel 2008, prima della lunga pausa dichiarata finalmente conclusa nel 2019. Ed il ritorno fotografa una compagine originaria in forma smagliante, restituendo agli ascoltatori, boomer e non, una presenza graditissima come una banconota da 50 euro che ami lasciare invecchiare nella tasca, sapendo che sta lì, garante del tuo benessere, e da cui è davvero dura separarsi. La title track con il featuring di Clementino è un bel modo di aprire il sipario, con una sessione di raccordo tra due generazioni che si scoprono a parlare lo stesso idioma ed a raccontare alla stessa velocità una realtà sociale che non ha mai smesso di cambiare, svestendo, ed alle volte bruciando, abiti che sembravano fatti su misura prima di trasformarsi in guaine poco confortevoli. Questione di impulsi ed il loro irrimediabile anticipo sulle tabelle di marcia e che portano a risposte da tollerare a malapena. Le zavorre, a scrutare bene, restano alle caviglie come cilici poco semplici da rendere innocui. Partecipare allora, assieme. E che vada da sé, se deve. Che “nun se po maje sapè comme va o nun va”. Il suono inconfondibile della fine del secolo scorso squarcia l’atmosfera ed introduce ‘O cardillo, primo singolo pubblicato dai 24 Grana e che riprende, colorandolo di una modernità ancora attualissima, un classico settecentesco della tradizione napoletana. Storia di un amore senza speranza, con un messaggero alato inviato a sondare le possibilità di avvicinamento. Con il tempo che regala fossi, rendendo evidente che creare crateri è più che un’allitterazione, diviene una colpa da espiare. Ed allora chiedi al tempo di avvolgerti in un sudario che ti restituirà asciutto tra un po’, imprimendo su tessuto una immagine di cui discuteranno gli altri al di fuori della teca. Segue la ultra energica Introdub, caratterizzata da fiati che abbracciano la cassa, in una furente rivendicazione del diritto all’errore, a petto in fuori, compreso netto che è da lì che nasce l’evoluzione, tra le spallate date, i calci ricevuti, gli addii alle competizioni. Del resto “chi nun tene vizi more sano, se n’esce a ind’a caiola cu ‘o ggenio e vulà”, trovandosi di fronte ad una Cartagine su cui si è ricostruito un paesaggio post-industriale. Sale a pioggia, gomma al posto delle pietre. Dove niente può fare più male, dove ogni caduta porta un rimbalzo, aspettando la calma e la sua benedizione. Le accelerazioni di Vesto sempre uguale, restano ancora oggi un manifesto di sfrontatezza rock che ribadisce chiaro e scuro la possibilità di non cambiare, anzi l’esigenza di non doverlo fare come ultima diga frapposta alla deriva nell’incoerenza. Parole come asce seppellite sotto il ghiaccio, ipotermia delle lame a innescare brividi dorsali, senza guanti né scudo a proteggere lo sterno che fu il nido delle debolezze. Una docile melodia circolare, che in calce a molti concerti si infuocava come artiglieria pesante al termine di una escalation, libera nell’aria Stai mai ccà. La memoria, sorridente, torna al tempo in cui soffiavo dietro gli aeroplani nei loro tentativi di staccarsi dal suolo. Ma molti furono poi atterraggi di emergenza. Fino ad arrivare al tempo in cui divenne faticoso anche tenere il filo agli aquiloni. Prima di tornare a riaprire quegli occhi tenuti chiusi a lungo, usandoli per dipingere il cielo nero della fantasia. E allora fuori la tavolozza. Che senza diluire troppo, ci sono arcobaleni brillanti da bloccare. Scariche elettriche ad accusare La costanza, quasi fosse un obiettivo da raggiungere ed al contempo un approdo immobile da cui scappare gambe in spalla. Deflagrazioni dai rischi non calcolati. Pattini anziché scarpe da corsa, per non chiedersi “e se poi?”, per smorzare gli interrogativi. Domande come organi pulsanti in quei contenitori che gli elicotteri trasportano in fretta e furia per trapianti improvvisi, capaci di salvare o creare rigetto. Ma che tocca farseli reimpiantare per poter dire. Kevlar è pioggia che lava ma non pulisce e che senti addosso, con il freddo pungente che ne deriva e la malinconia a mungere le nubi. È paura da curare, la speranza che fa tirare su le serrande dei giorni nuovi, che tutto è salvabile se i remi non confliggono nel movimento. È uno scatto di giornate di sole con qualcuno che passa a prenderti, per farti uscire dai labirinti dentro te stesso, talvolta tenendoti la fronte ed altre la mano, per non bruciare la candela della vita da un lato solo. Il bianco e nero di una Lusitania delicatissima scendono nella Kanzone doce come gocce da una flebo, secondo dopo secondo, a ritmo di fado, a mischiare sangue e consapevolezze seminate, aspre e brucianti come limone negli occhi. Parole amare da cambiare, come sassi usati per giocare a scacchi, così pesanti da non riuscire ad essere mossi. Ed ancora tra i quadrati si intravedono i graffi sulle superfici, con l’arrocco che rimane l’unica via per ripulire il campo dalla cenere. In successione sopraggiunge l’adrenalinica Canto pe’ nun suffrì, grido sincopato ed arrabbiato ad esorcizzare le ricerche terminate di fronte a porte chiuse, dietro le quali restano le stanze desiderate mentre in mano il destino continua a metterti soprammobili. Effetti di autonomie da distanza, di solidarietà per il frastuono degli scatoloni e delle sagome che strisciano verso l’uscio senza salutare. Finalmente vestite in maniera diseguale, per fortuna. Ecco poi L’attenzione, splendida ballad che accende i fari su oscurità scivolate dentro, un dignitoso atto di accusa contro le torte divise male, le pance piene e le mani desolatamente vuote. A voler ripristinare la lucidità degli occhi, quelli che sanno attraversare le cose senza arrossare. Quelli che sanno ancora perdere asciuttezza senza arrossire di fronte a “questo mondo barbaro”, mentre un blocco di ghisa attraversa le viscere come un iceberg alla deriva tra disparità dannatamente salate da mandare giù. Accireme suona avvolgente come velluto sulla pelle, tremolante come le profezie delle ultime volte, quelle sputate pregando di sbagliare, certi che l’errore arriva sempre e solo quando indesiderato, inevitabile anche facendo clamorose virate da off-shore. Con gli abbracci, quelli salvifici, a suggellare le promesse non tradite, a mettere fiori tra le mani, prima che il Vajont dietro le pupille trascini via tutto, immeritatamente. Ultimo gradino della raccolta è Luntano, dall’album Ghost Writers, dal sapore folk e dalle venature intime e frastornanti come essere incoronati re per la morte di qualcun altro. La voce di Francesco Di Bella si fa sottile come quei gatti che passano attraverso le ringhiere, appiattendosi quasi fino a scomparire senza per questo sbiadire, anzi riprendendo volume in uno spazio più adatto.
Sono tornati. Banalmente si direbbe che non hanno mai pensato sul serio di andarsene. Finalmente rialzati dal bordo del fiume, che vedere passare i cadaveri a valle non deve essere poi così interessante. Che era tempo di riprendere l’argilla tra le mani e ricominciare ad incastrare mattoni. Lasciando il tetto scoperto semmai. A prendere pioggia, è vero. Ma a guardare il cielo quando tutto è decisamente più pulito. Come i coccodrilli che non possono muoversi lateralmente, animali simbolo di rettitudine secondo i russi, così i 24 Grana aggiungono altro asfalto ben drenante e dritto in avanti su una strada che, partita oltre venticinque anni fa, prosegue senza guardare l’orologio, senza prestare l’orecchio al ticchettio, ma senza smettere di sentire l’odore di bruciato e con l’entusiasmo di chi deve ancora piazzare molte bandierine sul mondo, ridisegnando geografie con tratti a matita. Mentre noi, ex giovani che abbiamo potuto ascoltare allora il Metaversus piuttosto che farcene inghiottire oggi, con gli occhi cedevoli a riguardare i nostri anni luminosi come neon (per usare le parole dell’immenso Umberto Maria Giardini), ci ritroviamo ancora una volta ad osservare questa moneta del regno che fu mentre volteggia in aria prima di atterrare senza schizzi nella fontana delle cose belle, a sancire un altro desiderio esaudito.

Credits

Label:
LA CANZONETTA RECORD – 2022

Line-up: FRANCESCO DI BELLA (VOCE, CHITARRA, SYNTH)
GIUSEPPE FONTANELLA (CHITARRE)
ARMANDO COTUGNO (BASSO)
RENATO MINALE (BATTERIA E PERCUSSIONI)

Tracklist:

  1. A RACCOLTA
  2. ’O CARDILLO
  3. INTRODUB
  4. VESTO SEMPRE UGUALE
  5. STAI MAI CCA’
  6. LA COSTANZA
  7. KEVLAR
  8. KANZONE DOCE
  9. CANTO PE’ NUN SUFFRI’
  10. L’ATTENZIONE
  11. ACCIREME
  12. LUNTANO


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