Home / Recensioni / Album / Semplice – Motta

Semplice – Motta

Motta - semplice-copertinaA tre anni dal solco tracciato dall’ultimo lavoro Vivere o morire del 2018, torna Francesco Motta che si accomoda sul terzo gradino della scalinata verso la maturità, percorso iniziato con la rivelazione de La fine dei vent’anni, pluripremiato disco di esordio del 2016. Esce per la Sugar Music Semplice, dieci tracce che, come dichiara lo stesso artista pisano di nascita, rappresentano un racconto, ideato quasi come la scaletta di un concerto, con l’ambizione, decisamente centrata, di indicare la via della leggerezza, da intendersi come ben altra cosa rispetto all’assenza di peso specifico. Leggerezza che, come afferma Motta, citando il Calvino delle Lezioni americane, non è identificabile come una piuma che cade, bensì come l’uccellino che batte le ali per rimanere in volo; la sospensione aerea si percepisce in ognuna di queste dieci pennellate dieci, e cosa ancora più pregevole, non se ne avverte la fatica nel mantenere quota. La sezione archi, gradevolissimo valore aggiunto, dispiega la sua delicatezza su un tappeto rosso che attraversa regalmente questa cattedrale sonica, traccia dopo traccia, mentre nel transetto hanno già preso posto Giorgio Maria Condemi (chitarra), Matteo Scannicchio (tastiere), Cesare Petulicchio (batteria, già presente nei Bud Spencer Blues Explosion) e dietro l’altare marcano il territorio le percussioni di Mauro Refosco ed il basso di Bobby Wooten, entrambi direttamente dalla corte di David Byrne. Qui c’è tutto quello che occorre ad un disco per generare l’irrefrenabile spinta a metterlo su appena si apre una finestra temporale di almeno quaranta minuti al riparo dagli affanni. La prima boccata d’aria arriva con A te, una dedica incastrata tra archi che sanno di rinascita, atmosfere seventies che guardano al Lou Reed di Heroin, ma con un timbro inaspettatamente disintossicato. Suono limpido come “il mare che alla fine va dove vuole andare” e che va a contorcersi nel finale, proprio come spuma, terminale incosciente delle onde, che si strugge e poi si ricompone sui sassolini di una spiaggia dimenticata da tutti, dove distendersi solo per dare ordine ai pensieri. Segue il primo vero singolo, E poi finisco per amarti, che vede alla scrittura, come in oltre la metà dei pezzi del disco, la presenza di Pacifico, in una riuscitissima joint venture lirica. Affreschi di profezie auto-avveranti, quasi arrese all’ineluttabile impossibilità di non sbagliare, di non sovrapporre l’immagine di ciò che siamo a quella che raffigura ciò che vorremmo essere. In questa alternanza catulliana di stati d’animo, dove sentirsi sempre unici “come miliardi di persone sole”, ecco che sgomita senza invadenza una batteria pulsante che disegna un rassicurante percorso luminoso come quello nei corridoi centrali di un aereo.
Fari accesi su Via della luce, ai cori si intuisce la discreta presenza della signora Motta, Carolina Crescentini, splendidi occhi cobalto che svelano una voce assolutamente all’altezza di mescolarsi nel ritornello, senza distonie. La fine dei vent’anni è passata da un pezzo, con l’inevitabile carico di rimpianti tra i bagagli, ma Motta ha forse imparato a godersi le cose. Nonostante la frenesia del fuggire via da quelli che non lasciano spazio all’errore, costringendo alle volte a scappare così tanto lontano da sentire poi la distanza come un cappio infuocato che impone il ritorno come l’unico approdo possibile. Abbagli tra le visioni di Qualcosa di normale, amori quasi in supposizione, echi del poeta crotonese andato via troppo in fretta e troppo tempo fa, ed un’altra voce perfettamente accoppiata. Questioni di DNA, Alice Motta perfettamente a suo agio nel prendere per mano il fratello. Gli fa cenno di alzarsi in piedi, sembra di sentirli in lontananza sorridere tra maglie a righe, finestrini abbassati e veloci flashbacks che riportano nello stesso “quando” sgomberato da ogni senso di inadeguatezza. Poi di nuovo ad oggi, quando trascorrere due giorni “senza vedere la stazione” diviene urgenza a spezzare il fiato di una vita nomade, facendo riaffiorare violentemente il desiderio di qualcosa di normale, senza confondere la santa stabilità con la staticità dannata. In successione parte Quello che non so di te, potenziale ed ideale sequel di Quello che siamo diventati, altro pezzo presente su Vivere o morire. L’assenza di collocazione in un mondo dove “non avevamo niente ma NIENTE ci bastava”, alla ricerca dell’interminabile e lastricata via della conoscenza di cui non si scorgono mai gli argini, troppo intenti come siamo a guardare davanti e non di lato, dove in realtà tutto scorre davvero. Nel presente. Mentre schiviamo clamorosamente la Fortuna, che come dice Brecht, è alle nostre spalle proprio mentre continuiamo ad inseguirla. Lo slot numero 6 è occupato dalla canzone che dà il titolo all’intero lavoro, Semplice. Mantelli che scivolano giù dalle spalle verso il pavimento, dimensione di un semplice ricercato, essenziale ma non per questo minimale. Anzi. Disteso come un manifesto a tutta parete del Motta 3.0, deciso a vedere specchiata la propria immagine senza l’intercessione dei riflessi che distraggono, pura anche se spaventevole come può essere l’incontro con noi stessi, dopo esserci persi di vista per un po’. In punta di piedi reincontriamo poi il soffio delicato di Mrs. Crescentini che accompagna la rincorsa a scavalcare i recinti imposti da “Le regole del gioco”. Che a pensarci bene divengono poi una culla dove abbandonarsi senza livore, con un sorriso accennato che ruba lo spazio ai contrasti, senza arrendevolezza, accarezzati da una nuova consapevolezza non più acerba. Matura. Tridimensionale.
Nuova stagione, L’estate d’autunno è un tempo in cui i troppi “se fossi stato” lasciano campo ai “sono”, accettando finalmente il proprio perimetro umano, per poi auspicare con i “sarò” una comfort zone in un altro spazio, promesso e protetto, lasciando cadere in terra a frantumarsi come cristallo i rimpianti per il non aver fatto. L’incedere a tratti dei synth fa da sella comoda per escursioni nell’allegrezza di stagioni che si rincorrono e che non contemplano recinzioni. Ancora avanti, su vie da attraversare per portarsi Dall’altra parte del tempo. Dove inginocchiarsi per chiedere scusa, con la cenere abbondante tra i capelli, urlando adesso la propria colpa per aver lasciato tracimare troppo dalle proprie parole, per essersi consentito di innamorarsi. Alla ricerca di una catarsi in assenza di bivi da scegliere, di vite da salvare o morti da causare, sfrecciando su discese da imboccare a gran velocità. Senza mani sul manubrio. Chiude il disco un incantevole e struggente sigillo, scritto in epoca di lock down, a quattro mani con Dario Brunori e che rappresenta il diamante incastonato in questo diadema scintillante. Quando guardiamo una rosa termina con un battito convulso, impazzito, prolungato, a chiudere una tormentata invocazione per cercare una striscia di terra su cui camminare insieme, accompagnandosi nonostante le prospettive difformi, le paure che determinano sudori dalle temperature differenti, ma sapendo che le uniche parole che si vogliono sentire pronunciare sono nella bocca dell’altro. Cercando scampo anche “con il cuore che balla e la lingua per terra”, tentando di cavarsela pure se le pareti scure attorno sembrano avvicinarsi senza pietà, sottraendo aria e certezze.
Questo disco è una bella creatura dalla postura raffinata e lascia una gradevole sensazione di compiutezza, come una statua ben levigata in ogni suo punto, come le cose belle davvero da guardare e da accarezzare per dare ristoro ai palmi delle mani quando sono ad un passo dal cedere alla fatica generata dalle ruvidezze del quotidiano. Una buona scossa da fine pomeriggio, con orme ben visibili e riconoscibili a segnare la strada verso la fine della giornata, una via della luce dai bordi in rilievo a tenere fuori le inquietudini con cui abbiamo fatto vendemmia a piedi scalzi da chissà quanto tempo, con riposizionamenti in scioltezza tra “sampietrini e caffè”. Buona parte dell’album affonda la sua genesi in un tempo cronologicamente antecedente a quello di Vivere o Morire ed ancora se ne avvertono i bagliori da premio Tenco, targhe incontestabilmente meritate per una fiammeggiante scheggia di novità nel panorama indipendente nostrano, dalle sonorità che avvolgono senza stringere e dalle parole che sanno coraggiosamente anche autoaccusare senza il paracadute dell’assoluzione. Adesso non resta che attendere le prime date del Tour per vedere declinato questo lavoro nella dimensione per la quale è stato pensato; a tal riguardo, l’artista ha concesso ai fan della prima ora, come bonus per l’acquisto del disco in preorder, la possibilità di partecipare ad un mini-set live registrato al Monk di Roma il 16/04/2021 che ha già dato una precisa idea di ciò che fluirà sul palco a partire da questo mese di giugno. Modalità countdown avviata.

Credits

Label:  Sugar Music & Woodworm – 2021

Line-up: Francesco Motta (voce) – Carolina Crescentini (voce) – Matteo Scannicchio (Tastiere) – Giorgio Maria Condemi (chitarre) – Bobby Wooten (basso) – Mauro Refosco (percussioni) – Cesare Petulicchio (batteria)

Tracklist:

  1.  A Te
  2. E Poi Finisco Per Amarti
  3. Via Della Luce
  4. Qualcosa Di Normale
  5. Quello Che Non So Di Te
  6. Semplice
  7. Le Regole Del Gioco
  8. L’estate D’autunno
  9. Dall’altra Parte Del Tempo
  10. Quando Guardiamo Una Rosa

Link: Sito Ufficiale Facebook

Ti potrebbe interessare...

C'mon Tigre - Habitat - cover

Habitat – C’mon Tigre

È un Habitat tropicale quello dei C’mon Tigre, esploratori sonori del ritmo tribale e dei …

Leave a Reply