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Tu e la sua voce: Morrissey @ Auditorium Parco della musica (RM) 07/07/12

Ed ecco arrivato il giorno. Sono anni che lo aspetto, da prima di You Are The Quarry, non dico dai tempi degli Smiths ma quasi. Ho dovuto rinunciare alla data milanese per ragioni economico-logistiche, data a cui avrei partecipato per più di un motivo. Quella di Roma non potevo lasciarla passare. Ed eccola qui. Il biglietto è tra le mie mani, squallido come solo un biglietto di questi anni barbari sa essere, senza foto, senza disegni. Senza anima. Ma reca un nome inciso sopra e quel nome mi basta.
Partiamo in macchina e dopo una serie di disavventure, percorsi sbagliati (Ok, ci siamo persi! Come ci siamo persi? Come si fa a perdersi in autostrada!? È una strada dritta! Ci voleva un navigatore, cazzo! Siamo nel ventunesimo secolo!) e incontri ai limiti dell’assurdo (ho scoperto che Manzotin è vivo e vegeto e abita a Tivoli!) alla fine arriviamo all’Auditorium Parco della Musica giusto in tempo per vedere l’opening act: Christeen Young è sul palco.
Intorno a noi una marea di gente variegata la cui età spazia dai venti ai cinquant’anni. Coppie che si tengono la mano, gente che ride e scherza, non sento odore di fumo e questa cosa mi prende bene.
Prendiamo posto e la Young continua il suo show. Presi dall’atmosfera gaia che ci circonda la paragoniamo ad un incrocio fra Björk e un’ambulanza, ma la ragazza sa il fatto suo, picchia sui tasti della tastiera con grinta e con grinta maggiore canta. Regge un set tutta da sola e, alla fine, l’applauso è più che meritato. Poi saluta.
Le luci si spengono e sullo schermo ai lati del palco passano i video di quelli che furono le icone di una certa estetica gay anni ‘80’ e dell’artista che a momenti si esibirà. Poi i video finiscono e compare una gigantografia di Oscar Wilde. Ha il ballon di un fumetto che gli esce dalla bocca e il balloon recita una domanda: “Who is Morrissey?”. È quel tipo che sta entrando, Oscar, amico mio. Quel tipo con una camicia blu con applicazioni gialle sul torace. Quel tipo che è stato accolto dal boato dell’Auditorium. È lui Morrissey. Il mio Morrissey.
Ciao Roma, dice con quell’accento anglosassone, e direttamente dagli anni ’80 arriva Shoplifter of the world unite. E la cavea esplode. Lui agita la mano, il cavo del microfono sembra una serpe, vola, si attorciglia dietro di lui. La canzone finisce. Vorrei poter elencare tutta la scaletta ma, credetemi, ero troppo impegnato a ondeggiare. È questo che si fa ad un concerto di Morrissey, ho scoperto.
Si inizia osservando i nostalgici degli Smiths, tizi che sembrano usciti direttamente da un film di Ken Loach o di Wim Wenders. A concerto iniziato ci si chiede quale sarà il prossimo brano, si continua saltando e ci si scopre da soli con se stessi, in piedi, ad ondeggiare sulle note di Last Night I Dreamt That Somebody Loves Me, a chiedersi: “Perché questa canzone sono io?”, mentre si è  persi nella propria solitudine, appunto. Da solo con quel tuo modo balordo di essere fatto che le canzoni di Morrissey sembrano descrivere così bene, eternamente insoddisfatto di te stesso, sempre in trasformazione e sempre tristemente uguale all’imbecille che sei. Sempre accompagnato a qualcuno e nonostante ciò sempre e costantemente solo. Sempre in fuga da te stesso, sempre ad allontanare involontariamente, in maniera quasi criminale, le persone importanti, perché tu meglio di tutti sai com’è fatto te stesso. Ed è un mostro. Un mostro di contraddizioni. Come dice Morrisey in quella canzone che stasera è mancata: “She told me she loved me which means she must be insane”.
Morrissey ha scritto pagine doloranti accompagnate da musiche a tratti malinconiche, a tratti devastanti.
E questo concerto è una catarsi.
I brani volano via, la gente sala sul palco e viene immancabilmente placcata dalla security ma qualcuno passa. Qualcuno ce la fa. Un ragazzo, poteva avere sì e no vent’anni, gli porta un quaderno che mi piace pensare fosse una raccolta di poesie.
Una ragazza, prima di essere atterrata, riesce a dargli un mazzo di fiori. Lui li annusa e li lancia al pubblico.
Qualcuno grida This Charming Man e lui, voce ironica da vecchia zia, risponde “No! It’s Bored! It’s bored! It’s bored!”
E continua. Le canzoni non sono tante a ben pensarci, il concerto non è durato quanto speravo, ma i brani sono un’altalena di elettricità e malinconia.
Arriva Maladjusted, distorta e disturbante, ma mai quanto Meat Is Murder; segue la meravigliosa Let Me Kiss You.
Elencarle in ordine è impossibile, non avevo un notes e anche se l’avessi avuto figurarsi se m’andava di usarlo.
Posso dire che I’m Throwing My Arms Around Paris cantata a squarciagola è stata stupenda come I Know It’s Over è stata struggente, You have Killed Me spettacolare, Everyday is Like Sunday è stata da strapparsi i vestiti e interessanti sono stati alcuni brani del fantomatico nuovo disco Scandinavia, di cui ricordo le atmosfere incalzanti dell’omonimo singolo.
Poi arriva il solito siparietto dell’andar via per tornare e chiudere in bellezza con How Soon Is Now.
Un concerto meraviglioso ma triste, che riporta indietro negli anni. Il fantasma degli Smiths non ha aleggiato su Roma ma sicuramente era dentro me. Triste, malinconico, sconfitto ma fiero come solo gli stupidi sanno essere. E Morrissey forse è un gigionesco burlone a cui piace graffiare il posto dove conservi i ricordi, forse è un artista introspettivo, forse un rockettaro melanconico ancora ancorato ai fasti di venti e passa anni fa ma un suo concerto va visto. È come guardarsi dentro. No, ho sbagliato, è come ascoltarsi dentro.
Forse non vai a vedere Morrissey che canta, forse vai ad ascoltare ciò che senti perché lui sa cosa senti.
Non è la sua voce, sei tu nelle sue canzoni.
Fanno male perché ti dicono che sei sbagliato ma sai che è la verità e la verità è una cosa buona.
In fondo, se ci pensi bene, nonostante lo scarabocchio che sei diventato a quasi quarant’anni, ti vai bene così come sei.
Sì, ti vai bene così come sei.
È per questo che vai ad ascoltare Morrissey.
Tu e lui sapete che everyday is like sunday. (Foto di ZioWoody)

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