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Esprimere un’energia che prescinde da noi stessi: intervista a Giovanni Ferliga (Aucan)

In occasione del Release Party di Black Rainbows Remixes degli Aucan (@ TPO Bologna 11/05/12) LostHighways non ha perso l’occasione di una lunga chiacchierata con Giovanni Ferliga degli Aucan. Mentre il resto della squadra si occupava di ultimare le preparazioni per il live in programma il giorno successivo, Gio ci ha parlato a lungo del loro processo creativo e della perenne ricerca che li caratterizza. Un’intervista corposa ma ricca di spunti interessanti volti alla trasparente condivisione di un progetto musicale. (Si ringrazia Flavia Tommasini e il TPO per la collaborazione)

L’anno scorso è uscito Black Rainbows presentando ad pubblico molto vasto la “vostra essenza”; oggi invece, l’album di remix per lo più presenta la vostra musica filtrata da altri occhi, altre sensibilità. Il prossimo lavoro, se già ne avete idea, che direzione prenderà?
Il primo disco l’abbiamo fatto nel 2008, quindi chi ci ascolta da un po’ di tempo sa che siamo un gruppo sempre in rapida evoluzione, un po’ come questo mondo che continua a cambiare. Non abbiamo mai scelto di “fare un genere” come molti altri invece fanno; è un po’ un nostro punto debole. Non sappiamo che genere facciamo, facciamo gli Aucan.
C’è stato un periodo (quando ancora non era così commerciale) che siamo stati iperinfluenzati dal dubstep,  così come il math-rock perchè a diciotto anni ascoltavamo i Don Caballero. Per il resto il nostro percorso è autentico, con una matrice nostra, ispirata da ciò che ci succede.

Vi ritenete ancora alla ricerca di un vostro personale suono?
Noi adottiamo una filosofia piuttosto zen: siamo convinti che la musica non sia una cosa che crei tu, ma esiste da prima. Tu al massimo puoi riuscire ad intercettare questa energia, la interpreti a modo tuo, però è un’energia che già esiste. Quando provo a scrivere un pezzo in un modo preordinato, al 99% delle volte non mi piace o non ci riesco. Capita più spesso che magari, in un breve lasso di tempo colto da ispirazione, spingo qualche tasto quasi a caso, e sento che da lì può nascere un pezzo… ma per tornare alla domanda precedente: proprio per questi motivi non so come sarà il prossimo disco.

Tra i remix solo tre hanno la vostra firma. Gli altri sono ad opera di esponenti di spicco della musica elettronica internazionale…
Sì, ci sono sia dei remix ad opera di altri, come anche dei featuring con Dalek (IconAclass – ndr) e Spex. Questi ultimi hanno realizzato le loro tracce feat sulle versioni vecchie dei pezzi, ma il risultato era di pezzi rock e reppati. Non ci piacevano, così successivamente abbiamo fatto anche i nostri remix, più freschi, più nuovi.

Il vostro è un ambiente che meglio si presta in termini di quantità e facilità a collaborazioni rispetto ad esempio all’ambiente puramente rock, ma quanto questa situazione consente di creare vere e proprie “scene” musicali?
Certo, anche se penso che le scene esistano ma abbiano una durata sempre più breve perchè tutto quanto cambia molto velocemente. In passato ci sono state scene, pensa a quella dei rave, della techno – qualcosa che ha fatto parte anche delle nostre vite – in Italia però ormai è finita. Sì, c’era questa situazione che si può definire “scena”, dove tante persone si riunivano per allestire e partecipare ad un rave, magari ci si vestiva in modo simile, si condivideva una mentalità comune (quella delle zone temporaneamente autonome), ed anche a livello visivo dobbiamo molto ai rave, quell’immaginario del soundsystem, le drum-machine… però non so se altrove ora esistano vere e proprie scene. Penso siano dinamiche legate ai luoghi, come poteva essere Bristol con la nascita della dubstep: un meccanismo di spazi, etichette, che poi finiscono anche per saturare. Non so quindi se possano ancora crearsi delle scene, di certo capiterà, ma non so spiegarti “come”. Posso dirti invece che le collaborazioni ora nascono non tanto spinte da un’ipotetica scena, ma dai rapporti umani. Non è che una scena, fatta di relazioni anche di amicizia tra le persone, si crei sostenuta dal semplice “fare musica simile”; piuttosto accade il contrario: ci si conosce creando dei rapporti personali, poi da lì sei portato a realizzare una collaborazione. Posso farti l’esempio della nostra collaborazione con Shigeto: l’avevamo conosciuto suonando insieme e passando una bella serata, poi a distanza di tempo gli ho scritto per richiedere di realizzare un remix per noi. Non mi rispondeva, così gli ho scritto nuovamente, poi di nuovo ancora dicendo, “Sono Gio, avevamo suonato insieme, ti ricordi?” e lui mi ha risposto subito: semplicemente non aveva collegato il nostro nome a quella serata trascorsa insieme. E’ da quell’esperienza che si può dire sia nata la collaborazione.

Parliamo del  Release Party al TPO di Bologna, qualche giorno speso per allestire questo nuovo live che porterete in giro. Con quali propositi ed obiettivi è stato studiato?
Spaccare tutto! Noi cerchiamo sempre di fare un live potente, è nella nostra natura hard-core. E’ un’energia che proviene dalle nostre influenze: eravamo super-fan dei Converge, dei Refused. Cerchiamo anche di fare un live vario, con parti strumentali ed altre più cantate. Anche per quanto riguarda le luci e le proiezioni abbiamo realizzato un qualcosa di nuovo che non riesco nemmeno a spiegartelo. Bisogna assistere al live!

Il lato visuale ha forte importanza nel vostro progetto, a partire dall’artwork dei dischi curati direttamente da Francesco. Per voi, l’attenzione all’immagine è semplicemente figlia dei tempi attuali o rappresenta qualcosa di specifico nella vostra visione artistica?
Fra è sicuramente colui che negli Aucan si occupa di queste cose (è suo anche il lavoro ai visual); lui ha un master in grafic design ed insieme ad un collettivo cura una rivista (Krisis – http://www.krisismagazine.com/). Comunque anche nell’approccio che abbiamo nel curare le grafiche, i video o il lato visuale dei live, non ci prefissiamo nulla, riuscendo però a mentenere un filo conduttore. E’ una parte molto importante: puoi fare musica bellissima, ma se la presenti male non le consenti di essere vissuta come tale.

Nella vostra biografia si cita l’importanza di internet nella diffusione anche gratuita della vostra musica. Anche in questa declinazione ripeto la domanda di prima: quanto ciò è considerato un “adeguarsi” ai tempi, o è una parte fondante del vostro progetto?
Ammetto che per noi è una scoperta dell’ultima ora perchè ci sono molti gruppi che l’hanno fatto prima. Se poi si fanno dei conti riguardo alle vendite digitali… insomma: chi vuole comprare il cd, comunque lo comprerà perchè significa che non è solito scaricare, oppure è legato all’oggetto. Per chi invece è solito scaricare perchè sa farlo (e non ci vuole molto a cercare un torrent) è meglio che lo faccia direttamente dal nostro sito, magari in una qualità decente con i titoli delle canzoni giuste! Se poi uno ama il vinile o è un dj che li usa ancora così come faccio io, abbiamo realizzato anche versioni in doppio vinile.
Il nostro disco avremo dovuto venderlo su iTunes a circa 9€… la traccia mp3 è ricca di disturbi che rovinano l’ascolto: un mp3 è come una macchina rigata… chiedere addirittura dei soldi!

Tra i tanti pregi della vostra musica, forse quello più accessibile e riconoscibile da tutti è la capacità di fare da collante tra un mondo elettronico spesso “distaccato” dall’ascoltatore, e quell’approccio molto più “rock” di un live set suonato e sudato…
Certamente! Il tutto deriva dal fatto che chi fa musica elettronica spesso è da sempre dietro ad una consolle, concentrato: per noi è diverso perchè non siamo partiti in questo modo. Eravamo una band post-rock, e quando ho vissuto in Spagna avevo un gruppo hard-core. Ci piacerebbe essere come altri, ma siamo noi! Spesso gruppi emergenti ci chiedono consigli: il consiglio fondamentale è sempre “essere sé stessi” e fare ciò che ci si sente. Io per esempio non ascolterei mai un disco degli Aucan: può sembrare paradossale ma non l’ho mai ascoltato e probabilmente non mi piacerebbe. Segue dal discorso iniziale: non ci prefiggiamo di fare qualcosa seguendo dei gusti, delle etichette. Esprimiamo un’energia che esiste a prescindere dagli Aucan. Casualmente avviene una creazione, filtrata da una scelta di cosa tenere e cosa no, interpretata, e presentata alla fine come risultato di questo processo.

Per voi è quindi più importante il “come” rispetto al “cosa” si vuole esprimere?
Sicuramente. Certamente c’è una scelta di cosa andrà a fare parte degli Aucan e cosa no, ma è una selezione, non una direzione. Al massimo possiamo darci delle linee guida, come dire: facciamo un brano strumentale, oppure uno senza chitarra. La sperimentazione poi ha tante strade da percorrere. Ci si può porre anche dei limiti temporali e dire “ora facciamo un brano e lo finiamo oggi”, e tutto il percorso creativo si muove in modo diverso. La vita stessa porta a cambiare. Da quando non abbiamo più una nostra sala prove ci spingiamo molto più verso l’elettronica perchè semplicemente è più facile trovarci in una stanza con due monitor e registrare. La vita condiziona l’espressione, e non è una considerazione da poco. Penso ad un gruppo come i Verdena, che ha sempre avuto il pollaio sotto casa: molto probabilmente il loro percorso è stato fortemente condizionato da questa situazione e magari anche noi con un pollaio sotto casa ora potremo suonare qualcosa di radicalmente diverso.

Personalmente trovo enorme difficoltà nel districarmi tra le centinaia di etichette di genere e stili che sono stati coniati per la musica elettronica. Per voi ne sono stati creati addirittura ad hoc…
In realtà è normale: la gente ha tanti input e poco tempo, quindi riuscire a sintetizzare con poche parole può essere un bene. Se vado a spiegare che “faccio canzoni in cui la batteria ha il tempo spezzato un po’ dubstep, ma acustica, poi il cantante urla, ma a momenti no…” ovviamente diventa impossibile. Capita poi che tutti dicano che facciamo dubstep, cosa non assolutamente vera! Vai su wikipedia e trovi una pagina scritta da non so chi, con tante cose vere ed altre no. Alla gente normale non interessa che genere fai: chi si pone la domanda è un feticista. Chi vuole saperlo viene al concerto e ascolta. Per esempio io non ho mai saputo che genere fa Aphex Twin! Poi ovviamente, se si parla di chi ha inventato un genere allora diventa inevitabile usare certi termini. A noi non è mai interessato; potevamo accodarci alla scia di chi suona dubstep live identificandoci in questo modo, magari trovando successo… ma sono cose che nel giro di qualche anno si esauriscono.

L’ultima domanda è sull’estero: voi avete una grande esperienza che vi porta a suonare più nel resto dell’Europa che in Italia. Spesso si fanno grandi discorsi sulle differenze in negativo tra la musica in Italia e quella anche solo a poche centinaia di km da noi ma oltre confine…
Infatti ce lo chiedono sempre…

… e per questo io non voglio chiedertelo! Vorrei invece sapere se ti è capitato di pensare “questa cosa in Italia la facciamo anche meglio!”
Ah, ok! La pasta! Guarda che è importante! All’estero non mettono sale… vai in giro un mese a mangiare pasta così. Una volta in Germania ci hanno servito anche dei ravioli ripieni (quelli confezionati in busta) crudi, in insalata. Abbiamo provato, poi buttati nel cesso.
Dal punto di vista musicale, invece, cosa facciamo meglio in Italia? Ci facciamo il culo! In Italia il governo non mette una lira, mentre in Francia ci sono grandi agevolazioni. Mi sono informato: se prendessi la cittadinanza francese poi versando allo stato 150€ ad ogni concerto per 45 date (ovviamente tutto dimostrabile, fatturato ed in regola), avrei diritto ad un rimborso mensile di 1500€ per dieci mesi. Poi potrei fare nuovamente richiesta, e magari contemporaneamente avere un altro lavoro. E tutto questo vale non solo per musicisti, ma anche per chi lavora come fonico o booking/organizzatore.
In più in ogni città ci sono dei locali chiamati Salle de Musique Actuelle: tutto nuovo, con impianti ultimo modello, sala di registrazione, e sai quanti ragazzi all’interno lavorano e fanno corsi di formazione come fonici e poi trasmettono il mestiere? Però è anche vero che se ti viene concesso di vivere di musica indipendentemente dalla qualità… insomma, in Italia se al tuo concerto porti solo 10 persone, dopo sei mesi non suoni più!

Una selezione brutalmente naturale.
Sì, ma sotto certi aspetti può anche essere positivo, perchè ti porta a spingerti a fare le cose davvero bene. Noi per esempio siamo in otto, con tante spese tra tecnici, il furgone (che ora non abbiamo più e lo prendiamo a noleggio: costa un sacco di soldi anche se è qui fermo), ed il fatto di poter contare solo sulle proprie forze ti porta a voler realizzare un qualcosa che di volta in volta funzioni sempre meglio.

BRRMXS

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