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Tempus fugit: intervista a Herself

E’ un appuntamento fisso con l’anima dei boschi. Ci ritroviamo ogni volta che esce un suo disco, ogni volta che Giole Valenti aka Herself intrappola in musica il suo sentire di bardo del tempo che fugge.  Eccoci al quarto disco, questa volta omonimo. L’ultimo Herself mostra oltre i suoi classici colori folk e dark anche le dilatazioni epiche del violoncello di Aldo Ammirata. Nel nostro Bel Paese di esterofili si inseguono miti come Bon Iver ed altri songwriters stranieri senza notare che talenti di quella portata li abbiamo in casa nostra, più precisamente nella profonda Sicilia. Felici di essere stati tra i primi a sostenere il progetto Herself tanti anni fa e di esserci ancora oggi.

Perché hai scelto Herself proprio come titolo del tuo quarto album?
Un po’ a segnalare una sorta di ricominciamento, per una maggiore caratterizzazione del suono: credo che quest’ultimo disco sia una sorta di summa di quanto espresso finora. Poi c’è il fatto che questo disco, a differenza degli altri, non mi interrogava circa un titolo, semplicemente non lo richiedeva. Spesso sono le opere che te ne “domandano” uno, una sorta di radianza primitiva dalla quale scaturisce la formalizzazione di un titolo. Chiaramente, non è una regola, piuttosto, una consuetudine, alla quale stavolta non ho voluto soggiacere.

In questo nuovo disco spicca subito la presenza del violoncello che forse ha esaltato certi colori senza tempo della tua musica. Cosa pensi del suono di questo disco rispetto ai tuo precedenti lavori?
Il violoncello di Aldo Ammirata sottolinea certe qualità umorali delle mie canzoni, ne definisce contorni più certi, una precisa area di referenza o, se vuoi, segnala un milieu smaccatamente inglese. Era quello che volevo per questo disco. Sono ossessionato dall’epoca vittoriana. Una sorta di tributo ad un portato anglo-americano che da sempre infesta, a più livelli, i dischi di Herself. Il suono dell’ultimo lavoro s’è lasciato alle spalle molto del lo-fi dei precedenti, poiché alcuni brani sono stati – per la prima volta nella mia fragile carriera – registrati in studio. Esperienza strana e un po’ aliena, nondimeno piacevole.

Mi hanno colpito i due Tempus Fugit. Come sono nati?
E’ un brano – nelle due declinazioni presenti – al quale sono molto legato. Da un lato perché è dedicato alla mia compagna, e quindi intriso di un’intensità emotiva che sento senza pari, e dall’altro perché ritengo di averne conseguito una forma molto vicina a quella che avevo in mente, e per un musicista è un risultato speciale.

Hai indubbiamente il talento di artisti alternativi internazionali come Bon Iver, Gravenhurst. Ti sei mai sentito “non capito in patria”?
E’ un discorso complesso e irto di ostacoli. Diciamo che la mia aspirazione non è mai stata quella di essere “capito”, poiché se l’arte viene immediatamente capita, e quindi assimilata, forse ha mancato il segno. L’arte, a mio modesto avviso, deve spronare l’immaginazione, far proliferare senso e significato nel fruitore, per nuovi autonomi sviluppi. Piuttosto, ho sempre cercato un pubblico che mi potesse comprendere, per sensibilità o affinità di spirito. Certo, altro discorso è quello attorno alla ricettività italiana, alla proliferazione di una cosiddetta scena indie che è veicolata da un certo tipo di informazione, dove ancora una volta valgono i clientelismi e i nepotismi speculari al paese. Tutto normale. Inutile dire che se fai musica romantica, in inglese, che se non hai soldi per una promozione adeguata, ed eccelli nella gentile-arte-del-farti-dei-nemici, solo perché ami dire la verità… allora è chiaro che in Italia sei fuori contesto.

Ho scoperto quasi per caso che sei anche critico musicale. Per te una bella recensione è quella che descrive solo tecnicamente un disco o che cerca di descrivere anche attraverso immagini, similitudini il suo impatto emozionale sull’ascoltatore?
Credo si trovi a metà. Da un certo punto di vista, se vuoi accademico, una recensione deve attenersi a delle precise regole, un’irreggimentazione etica che non deve lasciar troppo campo all’emozione, che è sempre il portato della storia personale del recensore, e quindi in quanto tale un po’ viziato in partenza. D’altrocanto, una critica troppo chirurgica nell’individuazione dei codici rischia di annoiare il lettore. Quindi, ancora una volta è il buon senso a dover soccorrere il critico…  e il buon gusto, ça va sans dire.

Quali sono gli artisti italiani con cui avresti voluto collaborare almeno una volta?
Non sono mai stato un gran ascoltatore di musica italiana. Mi sono formato con i classici anglo-americani. Non ho dunque un immaginario legato al mio paese, da questo punto di vista. Non me ne faccio certo un vanto. Ammetto che in passato, ci sono stati degli artisti notevoli. Come Piero Ciampi, per esempio, giusto per dirne uno. Stratos, De Andrè, Branduardi… Ma se devo essere sincero, io sono un individualista senza speranza. Collaborare in qualche modo significa dissolversi, e non è per niente facile. Le collaborazioni che ho fatto mi hanno già dato piena soddisfazione. Con gente come Mouse and Sequencers, Rebekah Spleen, La Fine Del Mondo… tutti amici, prima ancora che validi artisti.

Come è stato collaborare con Cambuzat?
Molto naturale. Come avviene tra sensibilità affini nel sentire la musica. Con Amaury Cambuzat abbiamo militato per un bel po’ in Jestrai Records, la mia precedente etichetta, lui con Ulan Bator e io con Herself. Ho sempre ammirato il lavoro degli Ulan Bator. Marco Campitelli (DeAmbula Records) ha infine suggerito la praticità di questa collaborazione; ha fatto ascoltare il disco a Cambuzat, al quale è piaciuto, e di lì il passo è stato brevissimo. Oltretutto, ci siamo subito capiti. E’ stato bello “intrappolare” un po’ dello spirito di Amaury in un mio disco.

Nel 2010 hai partecipato a due split-cd con artisiti stranieri. Come sono state queste due esperienze?
Molto simpatiche, direi. Le etichette (l’inglese Death Letter Tapes e la tedesca Against It!) che hanno reso ciò possibile avevano sentito delle mie cose. Così mi hanno chiesto di poter produrre qualcosa di mio. Sono in breve nati i due split. Mi è piaciuta l’idea che gente abituata ad un panorama europeo ed extracontinentale sia venuta ad interpellare un italiano. Mi ha gratificato, inutile dirlo.

Conosci L’Arsenale, la federazione siciliana delle arti e della musica fondata da Cesare Basile? Tale federazione si propone di coltivare, proteggere, reclamizzare e creare spazi, all’arte siciliana; una delle sue prime vittorie è stata l’occupazione-liberazione del Teatro Coppola di Catania, sulla scia del Valle di Roma. Cosa ne pensa un artista palermitano come te?
Non ne ho una cognizione piena. Ne ho sentito parlare, ma non conosco nello specifico, quindi preferisco non dire nulla a proposito. Mi rendo conto che la reclame, come dici tu, è importante nel contesto attuale, anzi credo strabordi su altri aspetti ormai ridotti a margine. E’ il segno dei tempi… O meglio, detto con Bogart: “È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare un bel niente!”

Tempus fugit – Preview

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