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Woodstock: La costruzione di una bugia

Woodstock, Music From The Original Soundtrack And More (Atlantic Records’ Cotillion, 1970)Stasera le luci a casa mia sono soffuse e rossastre.
Ho creato l’atmosfera adatta per riascoltare Woodstock, Music From The Original Soundtrack And More, un vinile che a suo tempo consumai. Peccato che non bevo e non fumo più, sarebbe stato un ascolto perfetto.
Prendo il disco e lo faccio andare mentre guardo con riverenza la copertina in cartone rovinato. Ritrae due ragazzi abbracciati in una coperta e circondati da una marea di persone sedute. Dall’aria stanca e dalla luce all’orizzonte sembra che, insieme, abbiano aspettato in piedi il sorgere del sole.
Forse è proprio così.
O forse no. Forse quella è una delle tante bugie di questo disco.
Bugie, sì.
La musica dal vinile è andata e finita, per un eccesso di zelo l’ho riascoltato in CD (che, da buon maniaco, ovviamente possiedo), due volte, e ho scoperto che Woodstock, quel disco, è una bugia. Una bugia con la quale, prima o poi, tutti gli appassionati di un certo tipo di musica dovranno fare i conti.
Perché? Facciamo un passo indietro o, meglio, un veloce riepilogo.
Il concerto di Woodstock (15-18 agosto, 1969), che si tenne a Bethel – e non a Woodstock, come si crede, a causa di problemi con i proprietari dei terreni -, fu un disastro organizzativo di proporzioni ciclopiche.
Un happening funestato da una pioggia torrenziale che trasformò il terreno in una palude peggiorando le condizioni igieniche già carenti con il bel tempo. In più, va detto a chiare lettere, la droga che circolava fra gli avventori non era delle migliori, come si sente anche nel documentario che testimonierà questa “tre giorni di pace, amore e musica” e si registrarono anche due morti, cosa che spesso viene omessa nelle cronache che narrano la leggenda del “più grande concerto di tutti i tempi”. Un concerto in cui il servizio di sicurezza, male organizzato e sopravvalutato, non riuscì a contenere la folla che affluì e, alla fine, su trecentomila e passa spettatori, più di un terzo risultò non pagante, la qual cosa comportò una perdita di più di un milione di dollari dell’epoca.
Tenetela a mente questa cifra perché dalla necessità di recuperare i soldi nacque il mito di Woodstock.
Gli artisti che si alternarono sul palco furono penalizzati da un impianto d’amplificazione scadente e la corrente mancò durante più esibizioni. Il carattere bizzoso di molte star dell’epoca tese gli animi dietro le quinte e si sfiorò spesso la rissa fra tecnici e artisti e, addirittura, fra artisti e artisti.
Mettiamoci poi che la nazione hippie, che con quello spettacolo doveva festeggiare lì il suo battesimo, celebrò invece il suo funerale.
Martin Luther King era caduto l’anno prima, Kennedy già da tempo non era più su questa terra e il Vietnam diventava sempre più il pantano in cui morì rantolando il sogno americano.
Gli anni ‘70 erano alle porte con il loro bagaglio di aspettative deluse, morti tragiche e desideri trasformati in incubi color zucchero marrone.
Insomma, per farla breve, quando tre giorni dopo la folla scemò lasciò dietro di sé, oltre che alla propria anima, un terreno distrutto, indumenti e spazzatura, due morti, una serie di registrazioni musicali più o meno scadenti di show, va detto ad onor del vero, indimenticabili e quel famoso milione e dispari di debito.
Cosa fare? Bisognava inventarsi qualcosa.
Ed ecco giungere, in soccorso degli organizzatori, Michael Wadleigh, il regista che girerà il film per cui Woodstock divenne WOODSTOCK!
Un’abile opera di taglia e cuci, prendendo le registrazioni migliori (e l’aggettivo è sprecato) dei migliori artisti che si avvicendarono sul palco e lasciandone fuori altri, spesso ugualmente meritevoli, alternando immagini bucoliche ad altre di totale devastazione, intervallando scene di cittadini in giacca e cravatta (spesso di mezza età) con immagini di giovani hippies nudi, sorridenti e pacifici.
Come trasformare un casino pazzesco in uno spettacolo perfetto.
L’arte cinematografica che rimodella la realtà.
Da qui, il triplo disco che ho riascoltato stasera.
Un disco, su cui regna sovrana la pessima qualità delle registrazioni, che si apre con una gracchiante di I Had A Dream di John B. Sebastian per continuare con una ancora peggiore di Going Up The Country dei Canned Heat, forse la peggior incisione da quando dio creò il rumore. Finalmente si arriva a Freedom/Sometime i feel like a motherless child di Ritchie Havens in cui la carica black arriva diretta anche dopo tutta l’acqua passata sotto i ponti del tempo.
Peccato che il feel sia rovinato da un Arlo Guthrie tagliato a metà che biascica qualcosa riguardo i freaks prima di intonare Coming Into Los Angeles. Country Joe McDonadl e Joan Baez ci regalano due perle del tempo, rispettivamente I Feel Like I’m Fixin’ To Die Rag, meraviglioso inno contro la guerra in Vietnam, e la delicata Joe Hill. Due perle subito seguite da tre brani di Crosby, Still, Nash e un infiltrato Young, già allora ai ferri corti ma uniti a Woodstock per esigenze discografiche e che, comunque, seppero regalare momenti di magia musicale in attesa di quel loro meraviglioso capolavoro che fu Four Way Streets.
Mentre le note dei quattro capelloni si spengono ecco arrivare il suono sporco dei The Who e, infine, quell’inaspettata gemma che fu With A Little Help From My Friend cantata da un bravissimo e ispirato, nonché giovanissimo, probabilmente strafatto e già allora con pochissimi capelli, Joe Cocker.
Il secondo CD si apre con un imbarazzante invocazione agli dei della pioggia affinché chiudessero i rubinetti del cielo (divinità sorde, dispettose o amanti della musica classica visto ciò che divenne il terreno!), totalmente bypassabile, e continua con una Soul Sacrifice dell’allora ragazzo prodigio Santana. I Ten Years After ci regalano una cavalcata elettrica fra r’n’r e blues per passare il testimone ad una penosa incursione in Volunteers dei miei adorati Jefferson Airplane. Finalmente Sly And The Family Stone ci traghettano agli albori di ciò che sarebbe poi diventato il funky arrabbiato dei ghetti neri, quindi il solito J.B.Sebastian, poi la Butterfield Blues Band, meravigliosi e totalmente fuori posto e, infine, Hendrix su cui è superfluo spendere anche solo due parole.
Il disco finisce sulle note indimenticabili di Purple Haze.
Quindi? Un bel disco, mi chiedo?
No, un bel documento.
Interessante se si è appassionati, si è letto più di un paio di libri (diciamo sette) su ciò che fu veramente il concerto di Woodstock, se si riesce a far differenza fra musica e agiografia.
Interessante per capire come un incontro di artisti diventi prima un prodotto commerciale e poi, col tempo, un mito.
Allora si capirà che questo disco è “bello” quando hai diciassette anni e hai bisogno di ostie di cui cibarti alla tua adolescenziale comunione con il rock, come con il corpo di un cristo elettrico e hippie.
Se non hai più diciassette anni, se riesci ad andare al di là di un mito smerciabile ai grandi magazzini o in seconda serata, allora Woodstock OST resta solo un triste documento. Qualcosa che trasforma il reale in immaginario, il peccato in grazia, l’errore in tocco di classe. Un disco figlio della necessità, più che dei fiori.
Bello, certo, il mito, ma la realtà fu ben altro e questo live non la racconta.
Ci insegna però, e nonostante tutto, che il rock non è solo attitudine.
E’ anche commercio, ovvio, ma è anche Storia, storie, Amore, amori.
E’ anche leggenda.

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