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Marco Notari: Crisalide

bannerbabelenoir_01_02Da oggi 7 gennaio (ogni due giorni), in collaborazione con Libellula Music, verranno pubblicati in esclusiva i racconti e le illustrazioni contenuti in Babele:noir.
Babele:noir nasce come ristampa in vinile a tiratura limitata numerata del concept-album di Marco Notari Babele (Artes-EMI,2008). Oltre al brano inedito Amsterdam 76, Babele:noir contiene un ricco booklet dove trovano spazio tredici racconti, uno per ogni canzone del disco, corredati da altrettante illustrazioni. I racconti, scritti dallo stesso Marco Notari, narrano la vicenda di Cristiano e Lucia assumendo la forma di un vero e proprio romanzo breve. Ad accompagnarli le suggestive tavole realizzate da alcuni tra i migliori illustratori italiani, sotto la direzione artistica di David “Diavù” Vecchiato (curatore artistico della galleria internazionale d’arte Mondo Pop, ideatore del progetto I.U.K e direttore artistico dell’area comics di XL). Il vinile è stato anticipato dall’uscita del nuovo singolo Porpora, accompagnato da un suggestivo videoclip di animazione realizzato dal regista e musicista torinese Tommaso Cerasuolo (Perturbazione).

Al link di seguito tutte le indicazioni per prenotare una copia:

www.libellulamusic.it

1) CRISALIDE – storia e testo: Marco Notari

Cristiano non era come gli altri. Non lo era mai stato. Quando aveva cinque anni aveva rischiato di diventare cieco da un occhio. Un giorno la maestra dell’asilo gli aveva tappato il sinistro e gli aveva chiesto “Quante dita sono ?”, e lui non era stato in grado di rispondere. Poi l’operazione era andata bene, così avevano detto i medici, ma lui aveva trascorso tutti gli anni delle elementari con gli occhiali ed un occhio, quello normale, come lo chiamavano gli altri, coperto. Da bambino odiava le giostre e le feste di compleanno, e se ne vergognava. A quindici anni odiava le discoteche e i film porno, e se ne vergognava. Cercava di fare finta che queste cose lo interessassero per sentirsi accettato dai suoi amici, ma non c’era nulla da fare, per quanto si sforzasse non ci riusciva e si sentiva sbagliato. Suo padre era il proprietario del più grosso studio legale di quel buco di culo di città e si faceva le lampade, il che conferiva al suo viso un permanente colorito fosforescente. Portava scarpe di marca con il tacco per mascherare la bassa statura, si considerava un uomo di successo e non riteneva fosse un suo dovere interessarsi al figlio, almeno fino a quando non fosse stato in età per entrare nell’azienda di famiglia.
Sua madre invece, una martire del focolare, amava dire di aver “sacrificato” la propria vita per crescere il suo unico adorato pargolo. Era questa una frase che non perdeva occasione di sfoggiare le rare volte in cui Cristiano non voleva seguire i suoi consigli. La donna era profondamente convinta di sapere cosa fosse meglio per il suo piccolo dal momento in cui lo aveva messo alla luce, tanto che quando lo aveva accompagnato al primo giorno di scuola elementare gli aveva sussurrato tra i denti, gli occhi lucidi di commozione, una frase che lui ancora ricordava: “Un giorno diventerai come tuo padre, lavorerai al suo fianco, e allora mi renderai orgogliosa di te”. Ed in effetti il bambino aveva fin da subito dimostrato un’ottima attitudine allo studio, tanto da diventare in breve tempo il primo della classe, così come sua madre si aspettava da lui. Tuttavia, parallelamente alla sua attività scolastica, Cristiano aveva molto presto sviluppato una travolgente passione per il disegno e la pittura ed anzi, a volerlo guardare dall’esterno, quella sembrava la sola cosa che gli desse davvero soddisfazione. Ciò destava non poche preoccupazioni nel cuore della donna, convinta com’era che la pittura e l’arte in generale fossero solo una perdita di tempo per fannulloni, ma dal momento che Cristiano era così bravo a scuola lei si ripeteva tra sé e sé che tutto sommato quasi tutti hanno qualche difetto, e si era convinta che crescendo gli sarebbe passato. La situazione però era andata peggiorando quando il ragazzino a quattordici anni aveva manifestato la volontà di iscriversi al liceo artistico. Sua mamma aveva deciso che era il momento di intervenire, e lo aveva iscritto al liceo classico, senza neppure dirglielo, per il suo bene – come gli avrebbe spiegato in seguito – convinta che questo avrebbe estirpato per sempre il problema. In un liceo classico, dove l’educazione artistica non era contemplata tra le materie di studio, Cristiano si sarebbe rimesso in carreggiata. La profumata signora, però, si illudeva invano. Cristiano continuava ad essere il primo della classe, ma continuava a dipingere. E così, dopo aver superato la maturità classica con il massimo dei voti, il ragazzo, compiuti i diciotto anni, aveva deciso di frequentare l’Accademia delle Belle Arti insieme a un paio di amici che condividevano le sue stesse inclinazioni. Terrore e sgomento avevano quasi divorato il cuore della donna. Suo figlio doveva diventare un grande avvocato, e dopo tutti gli sforzi che lei e suo marito avevano fatto non gli avrebbe permesso di gettare via la sua vita per un colpo di testa adolescenziale. Con urgenza aveva chiamato a raccolta l’uomo d’affari che per la prima volta, in virtù della situazione, aveva acconsentito di buon grado all’idea di una chiacchierata con il figlio. Così una sera i due si erano presentati senza preavviso in camera di Cristiano con i volti tirati, chiedendo con tono grave al ragazzo se davvero avesse intenzione di dare una tale delusione alla propria famiglia. Non pensava a tutti i sacrifici che loro avevano fatto per lui ? E, se era così egoista da non volerlo fare per loro, che riflettesse almeno sul suo futuro, sulla sua carriera e su ciò che le altre persone avrebbero detto di lui se nella vita fosse diventato un perdigiorno senza un reddito e un lavoro serio. Perché, se si iscriveva all’Accademia delle Belle Arti, sarebbe di certo finita così. Se ne sarebbe pentito, erano sicuri che se ne sarebbe pentito, doveva essere ragionevole ed ascoltare i suoi genitori, loro sapevano cosa era meglio per lui.
La mattina seguente l’adolescente era corso ad iscriversi a giurisprudenza, in preda a lancinanti sensi di colpa e con un groppo allo stomaco grosso come un cocomero. La sera in famiglia si era festeggiato stappando una bottiglia di Crystal, poi suo padre era di nuovo sparito dalla sua vita. Anche all’università il totale disinteresse per la materia che studiava non aveva impedito a Cristiano di eccellere, e di laurearsi con il massimo dei voti. Pure la giurisprudenza non lo stimolava minimamente, per quanto cercasse di sforzarsi. Il giorno della laurea non gli aveva lasciato dentro la minima soddisfazione, anzi uno spiacevole senso di vergogna quando ripensava a suo padre raggiante che gli regalava quel rolex davanti a tutti i suoi amici per manifestargli la sua stima. Cristiano aveva desiderato scomparire. Lui tra l’altro l’orologio non lo portava nemmeno.

Così il ragazzo era giunto all’età di ventiquattro anni, laureato e pronto ad entrare nell’azienda di famiglia, custodendo nel cuore la conclusione che in lui e nei suoi istinti ci fosse qualcosa di sbagliato, perché lo portavano sempre ad agire in maniera diversa rispetto a ciò che gli altri ritenevano giusto per lui. Pure la situazione di quella funebre provincia del nord ovest non lo aiutava, sembrava che ovunque imperasse la stessa mentalità abbracciata dai suoi genitori: sii rispettabile e normale e creati una posizione, cosicché gli altri possano invidiarti. Tutto il resto non conta. Ma poi, due sere dopo la laurea, in preda a una strana malinconia che non voleva spiegarsi, il neo avvocato era uscito da solo. Era arrivato in una chiesa sconsacrata, il Diavolo Rosso, ora adibito a locale di musica dal vivo, dove una barista gli aveva servito una birra che sapeva di sapone. Lei si chiamava Lucia. Avevano cominciato a parlare, e da lì era stato tutto così naturale come se fosse stato già scritto da qualcuno. Avevano scoperto di amare entrambi la pittura, avevano riso, poi Lucia aveva iniziato a parlargli della sua vita con una sincerità disarmante. Sua madre era morta quando lei era ancora una bambina, e le voleva molto bene. Suo padre era un rappresentante, e il lavoro lo portava quasi sempre lontano da casa. La sua unica aspirazione per la figlia era una laurea in Economia, che lui non aveva potuto conseguire, ma Lucia voleva fare, guarda caso, l’Accademia di Belle Arti. Così di fronte all’aut aut del padre – o economia o vai a lavorare – si era fatta assumere come barista in quel locale dal sapore magico. Ad un certo punto poi le parole erano iniziate a fluire anche dalla bocca di Cristiano, che le aveva confidato i suoi turbamenti – che solitamente nascondeva a tutti – senza tralasciare i dettagli più dolorosi, spingendosi oltre i limiti di ciò che era solito ammettere a se stesso. Aveva sempre sentito il peso di dover essere il migliore in tutto quello che faceva, forse per mascherare agli altri la sua insicurezza, ma nessuno dei traguardi che aveva raggiunto nella sua vita, scolastica e non, gli aveva mai dato alcuna soddisfazione. Appena otteneva un buon risultato si proiettava alla ricerca del successivo, senza riuscire a trarne alcun piacere. La sola cosa che usciva da questa logica era dipingere, nonostante i sensi di colpa che gli generava sapendo che la sua famiglia non condivideva questa sua inclinazione. Alle tre di notte i due ragazzi avevano chiuso il locale, e insieme avevano attraversato la città muta e deserta. Erano arrivati a casa di lei. E lì avevano fatto l’amore, come una liberazione. Per Cristiano era stata la prima volta. Da allora lui e Lucia si erano visti per due mesi. Sempre. E da allora tutto era cambiato, e lui non si sentiva più sbagliato.

Oggi sono stati tutto il giorno a casa di Lucia, suo padre come al solito è via per lavoro, ed i genitori di Cristiano pensano che lui sia a seguire un master a Roma. Ora, fuori dalla camera da letto, è notte. Lucia dorme, di un quieto sonno infantile, ma Cristiano è sveglio e osserva i tetti della periferia attraverso la finestra. La luna è piena e il cielo sereno. Cristiano prende una bottiglietta d’acqua dal comodino e ne beve un sorso. Apre il suo taccuino e scrive: “Noi siamo due alieni, capitati chissà come qui, in un posto che ci uccide giorno dopo giorno lentamente. Ma ora basta. Vaffanculo a questa cazzo di provincia nebbiosa, vaffanculo a questi sabato sera tutti uguali, vaffanculo al posto di lavoro prestigioso e ben remunerato che mia madre ha sognato per me da quando ero bambino. Prima che il giorno sia qui ce ne saremo andati. Perché noi non siamo come gli altri. E siamo stufi di vergognarcene.”

Disegni: © Luigi Piccatto e Renato Riccio (Clicca sulle immagini per ingrandire)

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