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Come estensione del corpo e dei sensi : intervista a Massimo Pupillo (Zu)

zu_inter01Prendiamo cinque sillabe: Car-bo-ni-fe-rous. Uniamole a tre nomi: Luca Mai, Jacopo Battaglia, Massimo Pupillo. Mescoliamo insieme. Cosa otteniamo? Un semplice monosillabo: Zu. Non hanno bisogno di parole per spiegare quello che fanno. Bastano batteria, sax baritono ed  un basso, estensioni dei loro corpi e dei loro sensi. Il “mezzo musica” agisce sulla percezione del messaggio senza avere la necessità di utilizzare contenuti, in tal caso le parole. Per gli Zu la musica vera è quella che ti sveglia, che ti scuote, che ti fa muovere, che ti lascia quella sensazione dentro che c’è ancora qualcosa da fare e che lo si può fare; la musica diventa agente di trasformazione del pensiero e della cultura, quindi della società.

Stakanovisti operatori della musica e per la musica, con una media di 150 concerti l’anno e 14 dischi all’attivo, inclusi 3 split e collaborazioni internazionali e non, il trio romano è quella montagna che ci si para davanti agli occhi quando prendiamo in mano Carbonifeorus (uscito per la Ipecac di Mike Patton nel febbraio 2009). Massimo, il bassista, in attesa di raggiungere il palco del centro sociale T.P.O. di Bologna, ci racconta scorci  di vita della band, dagli esordi di Bromio fino a Carboniferous. (Obsidian è in streaming autorizzato; in collaborazione con Ilaria Agrò; foto Di Emanuele Gessi; si ringrazia Flavia Tommasini del T.P.O. e Stefano di RobotRadio Records)

La vostra carriera comincia nel 1997. All’inizio avete lavorato anche per il  teatro e frequentavate l’ambiente romano, come potete descrivere quel periodo? Osservando il passato con il “senno di poi”, quale giudizio date alle vostre scelte, alla vostra “gioventù”?
Questo dipende da ognuno di noi tre, a chi lo chiedi e nel momento in cui lo chiedi. Probabilmente ieri mattina avrei potuto dirti che la mia vita non è fatta d’altro che da un catalogo di errori. Stasera potrei dirti l’esatto contrario. Non si ha molta scelta. Noi abbiamo sempre agito senza pensare in termini di carriera o futuro. Abbiamo fatto un passo alla volta, sempre nella direzione che in quel momento ci sentivamo di seguire. E’ stato tutto molto legato all’istinto. Per quel che riguarda Roma il nostro fare è stata una reazione ad un “nulla” e ad un’immobilità che magari adesso non è così forte, ma che sicuramente quando abbiamo iniziato c’era. Eravamo spinti da una sorta di rabbia, un non voler soccombere all’enorme vuoto che ci circondava. C’era la volontà di far succedere qualcosa che avesse un significato personale, di creare e rispondere. Tutti i livelli lavorativi sono venuti dopo. Tutti e tre volevamo vedere il mondo, girarlo, e non avevamo le possibilità economiche per farlo, e la musica ce l’ha permesso.

Tante sono state le collaborazioni, in particolare spiccano quelle con artisti stranieri. Quali vi hanno stimolato maggiormente? C’è stato un incontro in particolare che ha segnato in modo particolare il vostro stile?
Vedendolo come un cambiamento, sicuramente la collaborazione con Mike Patton, che dal punto di vista lavorativo è di altissimo profilo. Sicuramente ha portato dei risultati. Però ogni collaborazione era, nel momento, quella giusta da realizzare, quella che ci avrebbe fatto imparare qualcosa su noi stessi, sulla musica, sul cosa fare. Sono state tutte esperienze di crescita, anche umanamente siamo stati fortunatissimi. Questo è un ambito musicale in cui non girano tanti soldi ed il vero successo è campare con la tua musica; sicuramente non ti arricchisci e quindi questo lavoro lo si fa spinti dalla passione e dall’amore per quello che è. Patton è una persona limpida e continua a fare le cose con questo spirito: la nostra musica gli dice qualcosa, ed è per questo che collabora con noi.

Ci puoi parlare della sua etichetta, la Ipecac?
Se ne parlava da tempo, erano due anni che avevamo programmato l’uscita. E’ la prima volta che lavoriamo con un budget e questo ha fatto la differenza. Una cosa è stare uno o tre giorni in studio perchè è il massimo che ti puoi permettere, e una cosa è invece, tra registrazione, mixaggio e mastering, lavorare in studio un intero mese: trovi il tuo suono. Dalla Ipecac aspettavano semplicemente il master e la grafica della copertina: non abbiamo subito nessuna imposizione se non la data di consegna del disco. E’ un bel modo di lavorare, ci lascia completamente liberi ma allo stesso tempo ci immette in un ambito un pochino più ampio. Lo abbiamo già notato negli Stati Uniti dove a marzo abbiamo fatto una data a San Francisco in un club molto grosso, ed era sold out. Siamo stati in Messico, in Cile e i ragazzi conoscevano il disco. Carboniferous è uscito in Giappone per Ipecac Japan. Insomma, una struttura solida per una volta, ed è una cosa che si nota.

Quindi in cosa si differenzia Carboniferous dagli altri album?
Innanzitutto è diverso perchè un gruppo che ha una media di 150 live all’anno, per 8 anni, logicamente cambia. Siamo i primi ad avere bisogno di salire sul palco e fare qualcosa che ci ecciti. Non ci siamo mai detti: “il prossimo disco sarà più metal, più lento o più veloce o più cattivo”. Igneo, il disco precedente, è uscito nel 2002 e Carboniferous è stato composto nel 2008 quindi dopo sei anni e 800 concerti (a dir poco) alle spalle: la carta di identità dice che sei la stessa persona però sei cambiato dentro, è cambiato il gruppo, il suono, sono cambiati gli strumenti che usi. E’ normale che dal momento in cui vai in sala prove e studi per un nuovo lavoro esce fuori qualcosa che è diverso da quello che facevi prima.

zu_inter03Quindi anche i brani sono stati scritti in questi sei anni o siete riusciti a trovare un periodo di tempo in cui dedicarvi esclusivamente alla stesura?
Ci siamo dati un periodo di tempo di quattro mesi in cui siamo più o meno morti di fame e siamo riusciti a scrivere tutto il disco. Lì esiste soltanto una dimensione: vai solo a provare, tiri fuori musica e non hai mai nulla che ti interrompe. Soltanto in questo modo riesci a scavare in profondità. Quando parti e torni per concerti non hai proprio la forma mentale per entrare in studio.

C’è qualche aneddoto particolare di cui puoi parlarci sulla fase di registrazione, magari riguardo gli artisti che hanno collaborato?
La prima cosa che mi viene in mente è stata quando eravamo in tour sulla costa ovest in America. Abbiamo fatto la prima session a Los Angeles coi Melvins, un giorno in cui abbiamo buttato giù Chthonian e ad un certo punto King Buzzo se n’è dovuto andare via perchè veniva la mamma a prenderlo e da allora abbiamo questo grosso interrogativo: “com’è la mamma di King Buzzo?!”.

Personalmente ho assistito ad uno spettacolo dei B for Bang. Un’esperienza di tale contaminazione musicale dimostra la vostra assoluta flessibilità e passione. Ma nella pratica come può riuscire l’accostamento del bassista degli Zu ad una pianista come Katia Labeque?
Questo lo devi chiedere a lei che mi ha chiamato! Katia Labeque è francese, ma abita a Roma. Quando stava pensando di creare questo progetto io stavo facendo il tour con Original Silence, un gruppo di improvvisazione di cui fa parte Thurtston Moore. Durante il tour Katia ha ospitato Kim Gordon e le ha chiesto se conosceva in Europa un bassista e lui le suggerì il mio nome. Così, anche se Katia non mi conosceva personalmente, aveva però sentito che Thurston si era trovato bene con me. E’ stato abbastanza assurdo che il mio nome abbia fatto questo giro: passando per Roma, giungendo a New York, per poi tornare a Roma. Lei è una pianista enorme, ascolta di tutto, è aperta, insomma una vera artista. E mi ha chiamato per fare questa cosa per me nuova, con musica scritta e a contatto con musicisti di estrazione classica. Per me è stato tutto nuovo, un’occasione di crescita. Mi sono trovato a dover affrontare i miei limiti. Dopo tanti anni che suoni è quel tipo di doccia fredda che fa bene e consente di rendersi conto di tante cose.

L’argomento “estero” è ricorrente, e non può che invitarci ad una considerazione: il vostro successo al di fuori del territorio nazionale è sintomo di un malessere italiano o di una particolare attenzione per la musica in pochi determinati ambienti? E’ una questione nazionale o si limita esclusivamente ad eventi, locali, città?
E’ un domandone questo. In Francia, in Belgio, in Olanda i club che fanno questa musica sono sovvenzionati dallo Stato perchè tali eventi sono considerati cultura contemporanea. In Francia abbiamo suonato per tanti anni. All’inizio è stato uno dei posti in cui abbiamo suonato di più perchè c’era questo tipo di mentalità: i promoter non si fanno problemi ad organizzare serate anche se un gruppo è più sperimentale di un altro. E’ un vantaggio anche per chi fruisce la musica. Noi abbiamo amici a Roma che hanno portato avanti dei club ed è una lotta continua contro la città, i politici della circoscrizione, i vigili, i vicini. In Italia ci si ritrova contro tutti.

Attualmente il progetto Il Paese è Reale sta trascinando una serie di concerti ed eventi a tema: personalmente lo trovo utile ed interessante, ma non può restare solo. Cos’altro serve?
Credo che da parte degli Afterhours sia sicuramente una cosa positiva voler usare un momento di massima visibilità e condividerla con altri musicisti che stimano, anche se di diverse estrazioni. Non è nemmeno un fatto di valore musicale perchè personalmente nella compilation ci sono cose che non condivido, non apprezzo, ma è anche giusto dire che in Italia succede tutto questo e cercare di mostrarlo, altrimenti rimangono veramente sempre i soliti quattro nomi.

Sembra che in Italia ci sia, soprattutto a discapito dei giovani, una sorta di sindrome di passatismo. I giovani fanno fatica ad emergere perchè spesso si pensa “quella musica è già stata fatta negli anni ’70… quella musica l’ha già fatta Tizio… dopo Caio, quel genere musicale è morto…”. Nella vostra storia vi è capitato di prendere sotto l’ala qualche gruppo giovane o ne avete magari intenzione?
Noi non siamo nella posizione per farlo, non siamo i Sonic Youth! Quello che abbiamo sempre fatto coi gruppi coi quali personalmente sentivamo affinità o purezza di intenzioni è stato condividere il sapere o suonare nei loro dischi. C’è anche capitato di suonare con gruppi che hanno richiesto di condividere il palco con noi, e poi ci hanno domandato qual è il nostro management o la nostra agenzia… o com’è Steve Albini! Ed allora i rapporti vengono lasciati cadere. Però se vedi persone che si stanno impegnando, che hanno un progetto, che ci credono, penso che sia una cosa umana aiutare.

zu_inter02Stasera suonate a Indietrotutta, che si svolge in due serate tra il CSO Bruno di Trento e il TPO di Bologna. Cosa pensate di questo evento?
A parte il Cox 18 che è una realtà a sè ed è stato l’ultimo centro sociale col quale abbiamo avuto a che fare, è interessante ritrovarsi a suonare nei centri sociali dopo il ricambio generazionale che hanno avuto o stanno vivendo. I nuovi arrivati si rendono conto che la musica per avere un lato politico non deve per forza essere ridondante e retorica. Noi abbiamo sempre pensato che il medium è il messaggio, quindi nella musica che facciamo non c’è bisogno di cantare, perchè è autosufficiente. Certe cose sono evidenti, non c’è bisogno di dire troppo: in passato abbiamo anche provato a scrivere dei testi ai nostri brani, ma con la musica diciamo molto più di quanto possiamo esprimere con le parole. Dal momento in cui suoni in un certo modo sei già abbastanza esplicito. Ora c’è una nuova generazione di centri sociali in cui c’è la consapevolezza che non tutte le serate debbano risolversi nelle posse, il reggae o la techno. Ci sono anche persone creative e aperte pronte a rimettersi in gioco. E in queste due serate tra Trento e Bologna fanno vedere cosa succede a far suonare Zu, Il Teatro degli Orrori e Red Worms Farm. Insomma ben venga tutto questo!

Quindi c’è da essere ottimisti?
Noi stiamo vivendo facendo gli Zu, siamo dei folli ottimisti! Con la musica che facciamo dobbiamo avere ottimismo, è una necessità. E in un certo senso è diventata certezza: non abbiamo i piani quinquennali come le aziende, ma abbiamo delle fondamenta costruite negli anni che ci rendono solidi, pure quando arriva il cattivo tempo si resiste!

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