Home / Editoriali / Ombre tristi e delicate. La scuola genovese

Ombre tristi e delicate. La scuola genovese

fabriziodeandre_24Erano anni difficili, gli anni sessanta in Italia. Erano passati poco più di quindici anni dai giorni tremendi della guerra ma il nostro paese si stava riprendendo velocemente. Forse fin troppo velocemente. I contrasti fra diversi modi di vivere, orientati politicamente, si facevano pesanti e sarebbero scoppiati, da lì a una decina d’anni a venire, negli scontri di piazza che caratterizzeranno i ’70 italiani, i tristemente famosi Anni Di Piombo. Erano anni complicati, la necessità di tornare a vivere dopo un decennio di difficoltà si faceva pressante. Le automobili iniziavano a circolare in numero sempre maggiore e, insieme al televisore, incarnavano quel senso di benessere che prendeva piede nella nostra penisola. Eppure il benessere e la voglia di stare al passo coi tempi cozzavano con la dura realtà quotidiana, con i ritmi scanditi della vita di fabbrica, con la difficoltà di collimare la vecchia generazione che aveva visto la guerra con i nuovi figli del boom economico che stava scoppiando. I libri e le poesie, le nuove forme d’arte e i nuovi stili musicali che arrivavano da oltreoceano, il rock in particolar modo e le nuove derive del jazz, facevano sentire i propri effetti sulle coscienze e sui gusti giovanili.

Le scale blues americane e il germe di quello che sarebbe stato il pop dei quattro ragazzi di Liverpool scavavano solchi nella mente dei musicisti e di coloro che volevano iniziare a vivere la primavera del dopoguerra. Ma furono specialmente le nuove correnti poetiche che provenivano da oltralpe, dalla Francia per intenderci, che lasciarono segni evidenti, specialmente nella città che fu la prima città italiana a dar vita a quella che fu la nuova ondata di cantautori italiani, Genova. Nella Genova dei primi sessanta, approdo di nuove culture e ricettacolo di diversi stili di vita tipico delle città di mare, iniziarono a muovere i passi quei capisaldi della nostra cultura musicale che, a tutt’oggi, sono la base di chiunque abbia una coscienza artistica e sociale. Nei locali fumosi intorno al porto, lontanissimi dalla dolce vita romana, si muovevano e si incontravano quei personaggi che, in un’alchimia di intuizioni e di sentire, diedero vita alla Scuola Genovese.
Ancora oggi, nonostante siano passati anni, non ci si può trovare nei pressi dei carrugi senza rammentare le prime note di Via Del Campo. Fu a Genova che, complice la poetica di Brassen e un sentimento anarchico che prendeva piede nelle strade, Fabrizio De Andrè gettava le basi del suo stile critico e malinconico, decisamente cinico e inclemente nei confronti della società. Eppure uno stile dolce nelle ballate e al contempo cattivo nelle forma della scrittura, che faceva eroi delle sue canzoni i diseredati della terra. I ladri, gli assassini, i morti in guerra, le puttane dei vicoli bui, le bambine troppo presto risvegliatesi alla grettezza del mondo erano le figure che nei suoi componimenti comparivano e che ancora oggi sono attualissime.
Un vivere i drammi del mondo cantato da De Andrè con grazia e realismo talmente incisivi da essere spesso censurato nelle trasmissioni RAI del nostro boom economico. Del resto la censura, in quegli anni, mieteva vittime illustri e spesso queste vittime venivano addirittura ostracizzate dalla società e dal mondo dello spettacolo per i loro comportamenti non conformi al comune sentire e anche De Andrè dovette sottostare a queste dinamiche. Il suo modo di raccontare la vita e i drammi, le grettezze del potere e le meschinità della società, nonostante fosse mal visto dalla “gente per bene”, ha reso De Andrè la pietra miliare su cui la maggior parte dei cantautori a venire hanno costruito i loro castelli poetici.
Di ben altro aspetto erano le canzoni dell’altro grande genovese (d’adozione), quel Luigi Tenco che troppo presto ci lasciò, divorato da una mente troppo avanti per quegli anni.
Nella poetica di Tenco si può ritrovare quell’introspezione angosciosa che spesso manca in De Andrè e si può dire che il primo sia il cantore dell’intimo mentre il secondo della società. Nelle canzoni di Tenco vengono dipinti la rassegnazione, quella nostalgia per i vecchi amori, la consapevolezza che le cose andate sono perse per sempre. Eppure ancora si può trovare la speranza, quella presa di posizione intima così lampante in Vedrai Vedrai.
De Andrè e Tenco furono le facce macchiate ma scintillanti della stessa sporca medaglia, la medaglia che rappresentava il mal di vivere e il vivere male mentre, sempre in modo malinconico e con derive francesizzate,  Bruno Lauzi, cresciuto tra i moli del porto, scriveva le sue dichiarazioni d’amore e d’odio alla sua città e alla sua gente.
Intanto in quegli anni, mentre Tenco, De Andrè e Lauzi arpeggiavano le loro chitarre, nella città ligure il dimenticato Umberto Bindi mise a punto uno stile pianistico classico ma personalissimo, fondato su studi di composizione approfonditi e che ci ha regalato quelle perle di bellezza delicata che sono Arrivederci e Il Nostro Concerto e mentre Bindi, forse il più preparato tecnicamente dei cantauori genovesi, sperimentava classicismi pianistici applicati alla canzone leggera, un altro giovane cantautore passava in rassegna le strade dell’intimo. Gino Paoli è forse una delle figure più emblematiche del cantautorato italiano.
Taciturno, schivo, spesso attaccabrighe, Paoli compone alcune delle più famose canzoni degli anni ’60 ma il successo non gli sarà utile a garantirgli serenità e tranquillità. Caduto nel baratro delle droghe, ne uscirà solo dopo un tremendo incidente stradale e dopo un periodo di silenzio tornerà ad essere uno dei pochi cantautori italiani più stimati, ma al contempo schivi, dell’intero panorama musicale. Una figura evanescente e oscura al tempo stesso, dal cipiglio aggressivo ma dalla voce delicata e intima che rimane come una carezza sul viso di chi ne ascolta una qualsiasi canzone.
Era questa, la Genova dei ’60. Violenta e malinconica, classica ma sperimentale, colta eppure bastarda, regalerà all’Italia quei volti e quelle voci che ancora oggi restano nella memoria nazionale. Per assurdo però, la nostra memoria è qualcosa di labile. Bindi, nonostante sia stato notato anche da quel Robert Plant che sarà la voce dei mitici Led Zeppelin, ha finito i suoi giorni in povertà e solitudine dopo una vita di stenti, Paoli resta chiuso nell’apprezzamento degli intenditori, il bang del colpo di pistola di Tenco ha donato una triste gloria ad una voce spesso trascurata in vita mentre l’ultimo colpo di tosse di De Andrè ha reso immortale quella stagione genovese che ha trasformato il nostro modo di fare musica. O poesia, che dir si voglia.

Ti potrebbe interessare...

JJC_in01

Sprecato… da una Graphic Novel: intervista a James Jonathan Clancy

Le diverse arti che si autoispirano hanno sempre affascinato LH. Non poteva, dunque, passare inosservato …

2 commenti

  1. bassistamistico

    caro cristiano ancora una volta devo farti i complimenti perchè quando leggo quello che scrivi mi ricordo di tante chiacchierate fatte in passato, credo che hai descritto bene quello che era genova e il suo pensiero, che era il pensiero credo di tutta una generazione, quella famosa generazione che poi ha perso….come diceva il “signor G”.
    ciao fra…a presto

  2. …eh, il “Signor G” la sapeva lunga.
    Aspetto di nuovo quelle chiacchierate e tengo la chitarra e l’armonica in caldo.

Leave a Reply