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Nulla da decidere, ma molto da difendere: intervista ai Post

Se si parla di realtà musicali nel circuito torinese, perchè alcune lo diventano sul serio finalmente, i Post e il loro nuovo album sono oggetto di curiosità. Nulla da decidere, Esordio commerciale perché, dopo aver pubblicato un ep nel 2004, sono finalmente riusciti a dare giusta ricompensa ai loro sforzi conquistando la distribuzione. Il mondo dei Post comunque è decisamente più facile da attraversare dell’oscurità in cui ci si barcamena nel rock moderno da selva notturna, più energia e meno voglia di circondarsi di lamento pur cavalcando l’onda dell’introspezione con spirito di scoperta.  Tra passato, presente e un inizio di futuro ci hanno raccontato come hanno dato vita al progetto e quanto conta per loro l’attenzione e il lavoro su ogni pezzo.

Post come e Post perché? Di cosa parlate e come gestite le vostre influenze fra tutti voi membri della band?
Riguardo le influenze possiamo dire che, sebbene importanti e per certi aspetti molto diverse tra loro, non ci condizionano più di tanto nella composizione e nell’arrangiamento dei brani, forse perché presenti in egual misura.

Partiamo dagli inizi: il pre-Post. Come avete deciso di cambiare direzione e come avete unito i vostri talenti?
Gigi: è stata pura fortuna arrivare a questa formazione, non è per niente facile trovare compagni con cui affiatarsi, tutti uniti nello sforzo dedicato a produrre canzoni e non di emergere come singoli. Si può dire che tutto ha avuto inizio quando ho conosciuto Davide nel 1990. In quell’anno avevo appena iniziato a suonare le tastiere con una band di ex-compagni di scuola ed eravamo in cerca di un chitarrista. Finita quell’avventura le nostre strade si sono divise e poi ricongiunte diverse volte fino a cementificare nei Post.

Dall’ep autoprodotto a Nulla da decidere (vostro album ufficiale), quanti percorsi avete intrapreso e cosa avete acquisito che prima non avevate?
Gigi: All’arrivo di Gio avevamo già diverse tracce. Il nostro primo lavoro è stato ri-arrangiarle con nuovi testi e linee vocali con l’intento di trovare una nuova identità sonora; alla fine abbiamo raccolto materiale a sufficienza per fissarlo in un album che potesse riassumere i primi 5 anni di attività della band.

Parliamo nel dettaglio del vostro disco, con un packaging interessante che blocca qualsiasi chiacchiericcio sulla perdita di popolarità della musica acquistabile per qualità. Raccontatemi le tracce, le vostre preferite, quelle su cui avete lavorato di più e quelle che rappresentano meglio la vostra visione. Immagino ci sia stato dietro un lavoro estenuante e prolifico dato il risultato…
Gigi: Sono legato ad ogni traccia per i motivi più diversi, alcune per gli effetti usati, alcune per le infinite volte che le abbiamo ripetute prima di trovare l’interpretazione o il suono giusto, alcune perchè abbiamo letteralmente inventato il suono mentre si registrava (ad es. il “solo” di chitarra ne Il privilegio). Personalmente non saprei quale traccia preferire alle altre, ognuna ha per me un buon motivo per essere ascoltata.
Davide: Scrivere quelle musiche è stato abbastanza facile, molte idee mi sono capitate in testa nei momenti più impensati oppure quando mi mettevo a strimpellare, magari sul divano con l’acustica, senza nemmeno aver l’intenzione di scrivere questo o quel tipo di canzone (e quelle uscite così sono forse le migliori). Arrangiarle è stato forse un po’ più lungo, per la questione dell’integrazione con gli altri strumenti e per il poco tempo che possiamo dedicare alla prove. Registrarle, e parlo sempre di me, è stato estenuante! Due dozzine abbondanti di giorni, arrivando in studio direttamente dal lavoro verso le 18 e tirando fino all’una-due del mattino e poi di nuovo via così. Tanto impegno nel cercare i suoni e nel suonare al meglio le parti. Ma il risultato credo sia lampante.

Parecchi dei vostri brani hanno anche la versione in inglese, immagino per una distribuzione oltre i confini del nostro paese. Come si concilia l’uso di una lingua diversa nel descrivere quello che provate e come si traduce a livello tecnico con la metrica?
Gigi: All’inizio si doveva decidere se comporre in inglese o in italiano. Abbiamo optato per la seconda pensando di poter avere qualche possibilità in più nel nostro Paese. Poi, appena siamo entrati in contatto con la nostra etichetta, si è presentato un nuovo scenario più ampio, per la distribuzione ed i live, che richiedeva già da subito la produzione di tre singoli in inglese. I brani avevano già un loro significato con parole e metriche ben precise; tradurle in inglese mantenendo la struttura della song e non banalizzare le parole è stato per Gio un lavoro molto impegnativo ed estremamente difficile. A questo proposito è stato di grandissimo aiuto il nostro Manager multi-lingue Samir Hadade. Ovviamente la cosa si semplifica se un brano lo concepisci già in inglese, ed è a questo che stiamo puntando per il prossimo album.

E’ giusto, secondo voi, scendere a compromessi per ottenere un po’ più di visibilità o mettete sempre in primo piano la comunicazione del messaggio insito nei brani?
Gigi: Dipende, alle volte è necessario per ottenere un’indipendenza artistica che spesso puoi permetterti solo se sei un po’ famoso. Occhio che però c’è sempre un limite oltre il quale non siamo disposti a scendere! In questi casi mi vengono in mente le canzonette dei Beatles all’inizio della loro carriera rispetto ai capolavori degli ultimi album, penso che tutti sarebbero felici di iniziare così.

L’album è nato da temi particolari fino a trovare un equilibrio e una storia unica o è un insieme delle vostre esperienze in capitoli ben definiti?
Gigi: Ogni traccia è una storia a sé per il motivo che ti dicevo prima. Ma ci piaceva l’idea di stilare una scaletta di brani in modo da avere un inizio (con i tipici 4 colpi di bacchetta) ed una fine con una traccia solo strumentale tipo colonna sonora, in mezzo brani che alternano diversi stati d’animo.

Per un buon prodotto occorrono ore e ore di lavoro di gruppo. Raccontatemi in breve un giorno, o una notte, in studio dei Post…
Gigi: A parte le full-immersion quando registriamo, normalmente ci troviamo la sera un paio di volte alla settimana. Abbiamo uno studio tutto nostro per cui possiamo lasciare montata tutta l’attrezzatura ed andare subito al sodo. Normalmente ci si scalda improvvisando qualcosa, poi si divide la sera in modo da arrangiare le nuove idee che solitamente portano Davide e Gio e lasciare uno spazio ai pezzi vecchi.

So che c’è una visione comune fra giornalista e gruppo per quanto riguarda la definizione “emergente”. Dà fastidio a me, figuriamoci a voi che la musica la fate e da tantissimo tempo. L’emergenza nell’essere sempre definito emergente… Opinioni? Quante ne volete!
Gigi: Immagino tu ti riferisca alla scena italiana. Forse più che nel termine il problema è che mancano persone che investano in questa realtà “sotterranea” piena di buone idee ed ottime intenzioni per dare una bella ventata di aria fresca alla musica italiana e non renderla inferiore a quella estera
Davide: Mi viene in mente ciò che direbbe Iggy Po: “Emergenti?. Oohhh motherfucking word!”… beep!

Domanda quasi di rito, anzi domande. Cosa vorreste ottenere dalla diffusione del vostro album e dai futuri live rispetto a quello che avete avuto fino ad ora?
Gigi: E’ naturale il desiderio di raccogliere consensi; conosciamo queste tracce da tantissimi mesi e siamo proprio curiosi di vedere come e se prenderanno piede nel resto del mondo grazie alla diffusione digitale. Anche per i live, visto che si parla principalmente di Europa dell’Est ed Inghilterra, abbiamo curiosità di vedere se la nostra musica sarà  apprezzata anche sui brani cantati in italiano… sarà un bel test!

Cosa non vorreste mai leggere di voi, quanto di più sbagliato sul vostro progetto si possa scrivere o pensare…
Gigi: Sinceramente non mi preoccupa cosa si possa dire o scrivere di noi. Personalmente accetto ogni critica e ne prendo sempre spunto per capire se può aiutarmi a migliorare o no.
Davide: Di solito mi altero un po’ quando leggo da parte di qualcuno che il nostro lavoro sia un “progetto commerciale”, ma che vuol dire? Che è stato fatto con l’intento di vendere? NO. Che vende molto? Magari!

C’è qualcosa che non rifareste tornando indietro o il vostro cammino di duro lavoro è servito per arrivare dove siete ora?
Gigi: C’è stata una fase “buia” a cavallo tra il 2002 ed  il 2003 nella quale non riuscivamo a trovare gli spazi e gli ambiti giusti per esprimere la nostra musica. Volevamo suonare in giro per farci le ossa ma stavamo perdendo la grinta necessaria per organizzarci in questo senso. I pub a Torino sono monopolizzati essenzialmente da cover e tribute band… insomma stavamo per perdere ogni stimolo. Poi abbiamo avuto la fortuna di entrare a far parte di un giro di ragazzi che sono riusciti con pochi mezzi ad organizzare manifestazioni per dare spazio a chi, come noi, propone musica sua, di qualunque genere. Mi riferisco ad HTS Musica, Rock On circle, Revolver Festival, il Barrio. Da lì abbiamo stretto amicizia con altre band molto interessanti della Torino Sotterranea ed iniziato a ritrovare nuova linfa per continuare. Ecco, se dovessi tornare indietro, eviterei quella fase di “rilassamento” che ci ha fatto perdere mesi preziosi che ora vorremmo avanti a noi..
Davide: forse la telecaster, la prenderei nera! Però non so, Jeff Buckley ce l’aveva ‘panna’ come la mia… no, concordo con Gigi, e la chitarra va bene così!

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