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The Desperate Kingdome Of Love: PJ Harvey @ Auditorium Parco della Musica (RM) 09/3/08

Piccolissime stelle cadute e sospese ad un passo dal suolo ad illuminare le fonti di suono, a condensare un immenso spazio in un cuore di calore, in un centro luminoso abbracciato da un buio denso di corpi, di attese, di tremiti… è lì che s’insinua ed appare una figura sottile vestita di stoffe, di cappe, eppure nuda… alla luce delle flebili fiammelle non c’è costume o teatralità, non c’è belletto o trina che possa celare il sangue, non c’è maschera o merletto che sappia anche solo velare quella nudità che conosce ma non dispensa pietà col suo essere fragile e feroce. Ma è solo nell’istante in cui le dita accarezzano per la prima volta le corde che si presentifica questo demone terrificante e bellissimo, è facendosi musica che diventa carne viva, anima toccante.

And I’ve travelled over/Dry earth and floods /Hell and high water /To bring you my love /Climbed over mountains/Travelled the sea/Cast down off heaven /Cast down on my knees/I’ve laid with the devil /Cursed god above /Forsaken heaven/To bring you my love”. Scure, lente, ossessive e ipnotiche scorrono le note sulle quali il demone canta il suo essere, disvelando una mostruosità affascinante che è bellezza, un’abbacinante bellezza che si mostra perturbando. To bring you my love. E si comincia cadere, a scivolare giù, verso il profondo, dentro il profondo. La voce annuncia una discesa agli inferi, vi conduce, mentre la tramuta in ascesa. Compie la malia danzando tra le chitarre e il piano, reso dai ninnoli familiare e per questo estraneo, parte di una sur-realtà, di un incantevole e seducente delirio. Le mani baciando i tasti, aggredendo le corde ed assalendo i metalli, dilaniano e preparano la carne a ricevere i rituali di una menade che onora la sua divinità.
Shame is the shadow of love”. Ne è cosciente la pallida creatura ammantata di pesanti tenebre, mostra il suo ghigno alla vergogna per sbranarla, per soffiarla via riducendola ad una litania crudele. Ci sono altre ombre dell’amore da cantare. Ci sono voragini ed altezze da affrontare senza timori né pudori. Ci sono ferite da trasformare in poesia e urla di piacere con cui fare melodie. Paziente se ne prende cura la gola, educata alla grazia solo perché imparasse così ad essere più oltraggiosa. Da quella caverna, culla di sogni ed incubi, si leva un canto che affonda con irruenza nelle oscurità… sa sfiorare con spregiudicatezza le bassezze e le miserie dell’anima ed arrivare alla purezza più assoluta, strapparla dal cielo per mostrarne allo sguardo umano la luce accecante ed intollerabile. È un canto che ad ogni istante assume differenti forme. In un solo attimo è donna, serpente, uomo, angelo, fiera, cristallo, crimine. È pietra, nube, bambina, rivolo, fiamma. È oceano, baratro, terra. È abisso. Voragine e vertigine che sfida… “I’ll tie your legs/Keep you against my chest /Oh, you’re not rid of me /Yeah, you’re not rid of me /I’ll make you lick my injuries /I’m gonna twist your head off, see”. Vertigine e voragine che implora… “Lick my legs I’m on fire/Lick my legs of desire”. Insegna a non rifiutare il pericolo della dannazione la vestale demoniaca, essere che congiunge in sé l’umano e ciò che è oltre l’uomo. Insegna come sia possibile curarsi col dolore e in questo re-imparare il volo. Quell’umanità e trascendenza che custodisce la riversa in musica, ne fa un suono che arriva ad essere insostenibile per quanta bellezza effonde… a tratti è talmente puro da dilaniare, la sua acutezza è crepa ed apertura, lama tagliente che si tramuta in spago, biancore che irretisce e poi sfocia in un nero di grida scure, silenzi assordanti e roghi.
Straniati, si osserva, sull’enorme palco che abitualmente ospita le fila di un’orchestra sinfonica, una donna in contatto con le sue fragilità e perciò al di là di queste. È sola, ma le sue mani sono moltiplicate dagli strumenti e dalla bocca sgorgano infinite anime. Mani ed anime che raccontano notti senza luna, spire di furore, labbra che portano su di sé il gusto del veleno, uno scivolare inesorabile in acque viscose, in un liquido livido, che d’improvviso avvince con vortici. Il metallo dà corpo al fragore come ritmo e voce di precipizi. Tra i tasti neri e bianchi un silenzio percorso da un sussurro dolcissimo viene disfatto dalla lingua e dalle parole sulla lingua che supplica… “I sowed a rose/Underneath the oak grove/With my boots on the ground/Into the earth I trampled it down/Grow grow grow/Teach me how to grow”. Il racconto delle mani e delle voci è una musica che è distorsione e limpidezza, elettricità e sua assenza unite in un abbraccio apollineo, in una danza dionisiaca.
È sola Polly Jane, ma quando tra le sue braccia la chitarra esplode e dai polsi trabocca un suono saturo, pieno, s’intravede accanto a lei una corte di fantasmi, tracce di costruzioni e disfacimenti, di lacrime, graffi ed estasi… appaiono coste frastagliate e giardini fioriti, parole che rotolano come movenze eternamente capaci di sedurre, di muovere il sangue, labbra con il rossetto strappato via dai baci, dalla pelle. C’mon Billy… e Billy arriva, insieme a Nina in ecstasy, ad Angelene con i suoi passi sfiniti di puttana dal nome di creatura celeste. È sola Polly Jane, ma attorniata dalle figure e dai moti che ha incarnato in grida e carezze di voce, poesie impalpabili come il fuoco e le brame. C’è il passato e il presente con lei, c’è la memoria e l’infinità degli slanci… segni e gesti da cui emerge il senso di un costante divenire che, prima di essere inghiottito dal buio muto, si avvinghia ai sensi con un ultimo canto che celebra il “disperato regno dell’amore”.
Si ritira ma non svanisce il bel demone con i suoi angeli e i suoi fantasmi. Lascia un sapore, quello del confine disfatto tra regni onirici e reali. Ricorda… “Something’s inside me/Unborn and unblessed/Disappears in the ether/This world to the next/Disappears in the ether/One world to the next”. Rievoca… “Non appartengo solo a questa vita. Vivo bene con la morte, come con coloro che non sono mai nati. Più vicini di altri al cuore della Creazione” (Paul Klee). Resta.

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2 commenti

  1. E’ stato uno dei live più intensi..intimi..che io abbia mai visti…l’arte si è materializzata per una notte
    davanti ai miei occhi..
    Feffa

  2. Preziose parole, le tue, Valentina.
    Inarrivabile, PJ Harvey. Donna con la D maiuscola, artista che resiste, che Resta.

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