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Morrissey: colui che sposò la luce e l’ombra

Ventun’anni. Tanti ne sono passati da quando, tartassati da continui rancori e fortissimi contrasti interni, si sciolse quello che fu, forse, il più rappresentativo dei gruppi inglesi che nacquero dal crogiolo degli anni ’80.
Gli Smiths ebbero vita breve ma, in quel brevissimo periodo che li vide calcare le scene, furono fautori di uno stile diverso, fresco e allegro nelle musiche e al contempo impegnato e angoscioso nei testi.
Cosa resta del miglior gruppo della nuova musica inglese dell’epoca? Resta lo stile sonoro di Johnny Marr che spianò la strada all’avvento della New Wave, ma, soprattutto, resta Morrissey.

Un nome, quello di Steven Patrick Morrissey, che non è rimasto legato a vecchi fantasmi oramai entrati nell’olimpo della musica moderna, ma che invece ha continuato, incurante degli anni che passavano, e che si è confermato una delle personalità più rappresentative della scena musicale mondiale.
Figlio di immigrati irlandesi cattolici e cresciuto a Manchester, una delle città più “proletarie” del regno unito, si avvicina sin da piccolo alla poesia, all’arte, alle canzoni. Diventa un vero ammiratore di Marianne Faithfull e nel frattempo, iniziano i primi screzi in famiglia che lo porteranno ad avere un rapporto strettissimo con la madre e ad allontanarsi sempre di più dalla figura paterna.
C’è quasi da immaginarselo camminare ragazzino in corti pantaloncini kaki, per le strade umide e grigie di Manchester, per lo più in solitudine, come ha dichiarato in tante interviste sulla sua vita.
Irlandese, cattolico con forti contrasti interni, contrasti che lo spingeranno a un rapporto tartassato e sofferto con la religione, in un paese protestante e fortemente improntato sulla mascolinità.
Il suo carattere si forma presto, quindi, attirato sempre più dalla “diversità” e dalla malinconia, dal contrasto tra ciò che si è e ciò che vogliono farti essere.
La depressione è dietro l’angolo.
L’esperienza con gli Smiths lo coinvolge in una girandola di successi, difficoltà personali, litigi con l’altra anima della formazione, quel Johnny Marr che forgiò la linea musicale del famoso gruppo. Se, infatti, la linea musicale degli Smiths era una creatura di Marr, non si può negare che l’animale da palcoscenico, lo scrittore dei testi più incisivi, il vero frontaman della formazione fosse Morrissey.
In una recente intervista in cui gli chiedevano se lui con i suoi testi, a metà fra poesia cittadina e riflessioni introspettive e depressive, avesse fatto bene ai suoi fans, ammiccando con quel suo sorriso furbo e cattivo, rispose che di sicuro li aveva rovinati quando non proprio costretti al suicidio.
Morrissey, così intimo e triste, riflessivo e rabbioso, tenero e cinico.
Con il finire degli Smiths, Morrissey decide di continuare.
Sforna subito Viva Hate, seguito a ruota da un album che molti definiscono la sua opera migliore, quel Bona Drag che viene definito “il canto del cigno degli Smiths quando erano gia morti e sepolti”.
Una conferma che sono i testi del corrucciato angloirlandese che sanno attirare l’attenzione.
I suoi concerti si susseguono, il suo ciuffo ribelle vede le platee di mezzo mondo, le sue movenze trasgressive e sensuali, quel braccio che si alza come ad abbracciare, i gladioli lanciati dal palco diventano il suo marchio di fabbrica.
Passa il tempo e cambia la musica.
Lui diviene un divo capace di mandare a monte un tour mondiale con David Bowie, per delle mai specificate incomprensioni con il Duca Bianco, e un’icona del movimento gay d’oltremanica anche se ha sempre tenuto un velo di eccentricità e riservatezza sulla sua vita privata.
Diventa un’attrazione.
Viene accusato di essere un ultranazionalista britannico, poi un comunista, poi un vigliacco ladro, una vecchia checca isterica, una persona inaffidabile, un eroe della middle class, un santo, un poeta.
Forse è tutto questo e anche di più, Morrissey ha sempre dato l’impressione dell’uomo in bilico fra fama e intimità, fra piazza affollata e salotto in penombra.
Il tempo passa e il personaggio, seppur eclissato, continua a essere un’icona.
Il suo volto solcato da sempre più rughe, i suoi capelli sempre più sale e pepe non ne attenuano il fascino.
Dopo un lungo silenzio, registra un disco nel 2004 in cui si sfiora il capolavoro. You are the Quarry è in assoluto la sua opera più ispirata. Brani del calibro di I have forgiven Jesus e I’m not sorry sono creature sonore celestiali e malinconiche, Come back to Camden è invece una stupenda dichiarazione d’amore alla città di Londra. Segue poi un live e un altro album di inediti, Ringleader of the tormentors, neanche lontanamente paragonabile a You are the Quarry, nonostante alcune delle tracce siano dei veri gioielli.
Il difetto/pregio di Morrissey è sempre stato un continuo calo di tensione, un tirare le corde tanto da spezzarle oppure un carezzarle talmente piano da non farle sentire. Un alternarsi di momenti eccelsi e di momenti scadenti che non fanno altro che confermare la sua figura di grande artista ma, soprattutto, di spirito inquieto.
Ora vive tra Londra e Roma, adora passeggiare per le vie del centro, come una persona normale, e fermarsi in librerie antiche cercando di non farsi riconoscere dai suoi innumerevoli ammiratori.
Perché anche se agogna ad essere solo Robert Patrick, per noi che nascondiamo con cura maniacale la nostra copia di The Queen is dead è e sarà per sempre colui che unisce luci e ombre in un sussurro intimo e sofferto.
Morrissey, chi altro?

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