In questo momento storico siamo lontani anni luce dal modo di comporre e fruire la musica tipico degli anni settanta. Ogni disco era un’occasione per l’artista e l’ascoltatore per allargare i propri orizzonti sensoriali e spirituali. C’era la cura del dettaglio, del cesello. Tutto era figlio della cultura, l’intrattenimento veniva come conseguenza, non era l’essenza. Ecco che ascoltare 100 ghosts,l’ultimo disco solista di Patrizio Fariselli, pianista dei legendari Area, è stato un ponte spazio-temporale verso quel modo di fare musica che le grandi major hanno smarrito. Un disco che si ciba del passato per arrivare ai giorni nostri. Abbiamo incrociato il maestro per approfondire i temi affrontati nel suo ultimo lavoro ma anche per soffermarci sulla ristampa del quarantennale di 1978 Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano e per ritornare a Demetrio Stratos.
Cosa unisce i 100 spettri della tradizione giapponese, i famosi Hyakki Yagyō (mi vengono in mente quelli del film La citta incantata di H. Miyazaki), con le danze della Creta arcaica di origine sciamanica, tramandati dai pastori balcanici nel tempo? La musica dà corpo ai fantasmi della tradizione etnica e si propone come memoria che sconfigge il tempo che passa…
Sì, hai centrato, ci sono già tre risposte nella tua domanda. L’immagine della tradizione giapponese mi diverte molto. Tutte le culture hanno un giorno in cui la soglia tra l’immanente ed il trascendente si frattura e ci sono queste incursioni. La cosa particolare di questa storia è che questi spettri fanno degli scherzi da prete molto pericolosi ed il musicista fa da guardiano di questa soglia, di questo varco tra le due dimensioni, diventa lo sciamano, il traghettatore per l’ascoltatore in un’esperienza fuori dall’ordinario. Inoltre questo piccolo miracolo avviene attraverso la musica, qualcosa che fondamentalmente è incorporea, pure se è aria smossa, ma dal punto di vista sensoriale la sua immediatezza è determinata proprio dalla sua apparente non fisicità, quindi perfetta per un percorso trascendentale. Poi c’è l’aspetto relativo al fatto che il materiale di questo disco viene dalla notte dei tempi, un brano ha 3500 anni, c’è un pezzo che risale al I secolo a.c. e quindi anche in questo senso si annida l’immagine degli spettri del titolo.
Come è nata l’idea di Song from Ugarit?
Dall’aver trovato questa melodia scritta in caratteri cuneiformi, forse la più antica melodia scritta nella storia dell’umanità, era un inno alla moglie del dio della luna. Mi è piaciuto un aspetto tecnico: questa melodia si ferma in punti sonori cui noi non siamo abituati e si muove fluida in altri dove non ci soffermeremmo dal punto di vista compositivo. Quindi diciamo che c’è qualcosa di innovativo, sperimentale in qualcosa di antico e che quindi non sempre nei nuovi approci c’è innovazione e qualità artistica. In realtà la qualità artistica è qualcosa di trasversale al tempo. Mi viene in mente l’immagine di Picasso quando andò ad ammirare le pitture rupestri di Altamira e disse che non aveva capito nulla.
Parliamo delle due voci femminili, Claudia Tellini e Grazia Di Michele….
Cominciamo da Grazia Di Michele che è presente in solo brano. E’ stato uno scambio di collaborazioni, io ho suonato il piano in un suo brano e lei mi ha cantato in greco antico nel brano Lamento Di Tecmessa. Mi ha colpito, al di là del suo talento indiscutibile, il fatto che lei sapesse benissimo il greco antico tanto da recitare a memoria passi dell’Odissea, quindi non poteva che essere lei a cantare quel brano. Invece Claudia Tellini ha lavorato con me già in tante formazioni da anni. In particolare in Area Open Project lei riesce a eguagliare le stesse tonalità di Demetrio nel repertorio storico. Lei ci riesce in maniera meravigliosa. Quindi è stato naturale coinvolgerla in questo mio disco. Lei essendo laureata in lingue mi ha garantito una certa versatilità che era perfetta per questo disco. Canta anche lei in greco antico e moderno ma riesce anche in vocalizzi liberi fantastici. La porto con me nelle presentazioni perché mi dà molte soddisfazioni.
Un altro aspetto del disco che mi ha colpito è il commistionare l’elettronica moderna con la tradizione etno-folk, è sempre stata una tua cifra stilistica, ma mi interessa approfondire se questa è un’attitudine ricercata frutto dell’improvvisazione o invece progetta ad hoc per suscitare determinate emozioni nell’ascoltatore…
Ambedue questi due approcci io perseguo quando creo musica perché mi viene in automatico dal maneggiare questa musica senza tempo. 100 Ghosts è figlio di un anno di ricerca e studio compositivo. C’è stata l’elaborazione di questi materiali a volte astratti e a volte molto concreti. A me piace sottolineare che l’80% del disco è suonato a mano.
Infatti si percepisce la passione del dettaglio rispetto a tanti dischi che escono recentemente. Hai la cura del dettaglio che ha l’artigiano…
Con questa immagine l’hai colta in pieno!
Nello stesso giorno di 100 ghosts è uscita anche la ristampa di 1978 Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano, perché questa ristampa?
Perché rimasterizzarlo? anche… perché è un atto dovuto per celebrare il quarantennale, ma anche perché ho seguito la rimasterizzazione di questo disco che ne aveva bisogno. Rispetto a come era stato registrato un tempo aveva delle lacune acustiche rispetto ai sistemi di registrazioni di oggi. Diciamo che per i sistemi di riproduzione degli anni settanta suonava benissimo. Tieni presente che la carta degli altoparlanti era mischiata con peli di gatto o capelli umani, per dirti una differenza tecnologica tra allora ed oggi. Quindi nei moderni sistemi non suonava come ricordavo all’epoca, abbiamo dovuto realizzare alcuni accorgimenti ed ora quel lavoro risplende di nuovo.
Quanto è importante per un giovane di oggi scoprire un disco come 1978 Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano? Ti cito: “Fu un anno formidabile il ’78 pieno di gran fermento e creatività ma da li a poco se ne sarebbero andati gli dei portandosi dietro una stagione di ideologie e passione politica”… oggi come situazione socio-politica e giovanile quanto siamo lontani da quegli anni?
Siamo lontanissimi. Siamo lontani e vicini. Il discorso è molto complesso. L’aspetto importante è che non c’è quella voglia di condivisione collettiva di realizzare un progetto comune di vita. Questa è la differenza sostanziale tra ieri ed oggi. C’era questa spinta dal basso, la fortissima di voglia di condivisione tribale che oggi non c’è. Questa spinta è stata completamente sepolta dai questi vari decenni. Ora viviamo in una terribile epoca, dove domina la prepotenza del mercato e l’omologazione più esasperata in tutti i sensi e quindi un ragazzo di oggi che vuole imporre la sua visione del mondo deve scollarsi di dosso tutta questo fardello immane. Le occasioni di condivisione sono sempre di meno, si sta sempre più chiusi in casa davanti ad un monitor piuttosto che vivere un concerto dal vivo e condividere un’esperienza con altri.
Sono d’accordo, sembra assurdo ma nel momento di massima connessione dell’umanità siamo al massimo dell’individualismo dettato dai socialnetwork e c’è l’illusione della condivisione…
S^, c’è anche l’illusione dell’onniscienza… come diceva Pio Baldelli negli anni settanta, il sovraccarico d’informazione conduce a sovraccarico d’ignoranza.
1978 Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano è stato anche l’ultimo disco di Demetrio Stratos, cosa avrebbe detto rispetto a questi tempi sia dal punto di vista sociale che culturale? Avrebbe preso parte a questo teatrino dell’intrattenimento a tutti i costi?
Non penso. Chi può dirlo. Pensa che lui stava per entrare dalla porta principale del gota della musica sperimentale internazionale. John Cage gli aveva praticamente spalancato le porte. Renditi conto cosa significhi questo. I cantanti che facevano sperimentazione erano tre. E lui era arrivato come quarto e Cage l’aveva individuato come migliore talento innovatore di quel momento. E tu mi muori proprio in quel momento. Un giorno hai il mal di testa ed il mese dopo muori. Se Dio esiste ci odia. Ogni tanto lo sogno e sogno proprio quei discorsi che facevamo all’epoca riportati ad oggi.
Possiamo dire che la musica solo basata sull’intrattenimento porta all’imbarbarimento dei tempi?
Io non ho nulla contro l’intrattenimento, alcuni miei brani lo inseguono, vedi le danze, ma la musica non può solo essere quello.