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Come d’incanto: Anathallo @ Beba Do Samba (Rm)11/05/09

anathallo_liveCi sono delle serate in cui tutto si capovolge e ogni cosa ti porta dove non avresti mai osato immaginare. Una data romana svelata soltanto qualche settimana prima e passata totalmente inosservata all’interno di un mini tour italiano, altrettanto “snobbato”, che comprendeva tre date in totale. La coincidenza con l’arrivo in Italia progettato da mesi, nella stessa data e proprio qui a Roma, della band che ha letteralmente spopolato nell’intero Regno Unito, i Glasvegas. La curiosità per il gruppo di Glasgow è forte e attira anche ma il rispetto dell’orario e la durata un po’ effimera (circa un’ora) del concerto dei Glasvegas, in un circolo totalmente caduto ai loro piedi, mi consente con tanto di corsa sfrenata di arrivare giusto in tempo per il concerto degli Anathallo. Il Beba Do Samba è un piccolissimo locale nei meandri del quartiere di San Lorenzo. Quando entro i sette del Michigan sono già tutti sul mini palco, hanno iniziato da poco; il pianoforte a muro e le tastiere sono invece sistemate per  terra, visto lo spazio effimero. Una ventina di persone sono sedute ai tavolini e guardano assorte i sette giovani americani. Altri sono seduti con le spalle rivolte al bancone, a meno di un metro di distanza dal palchetto. Si avverte un’atmosfera davvero incredibilmente rilassata, sorridente.

Gli Anathallo li avevamo seguiti col loro splendido disco Canopy Glow e avevamo avuto il piacere di scambiare qualche battuta con Bret Wallin che ci aveva rivelato lo spirito con cui tutti loro affrontano l’esperienza musicale che si fa esperienza di vita. Trasferitisi in blocco dalla piccola Mt. Pleasant (Michigan) a Chicago (Illinois) vivono insieme in una chiesa, fanno dei piccoli lavoretti per poter avere la possibilità di girare in tour, di registrare i dischi, di curare il loro stile di vita votato alla musica. E c’è qualcosa di diverso in loro, li guardi e te ne accorgi all’istante. Un feeling che non si riesce a descrivere a parole ma che si esplicita in tutta la sua intensità non appena tramuta in musica. Lo capisci perché ogni cosa è a suo posto, ognuno suona con un’immedesimazione ed una dedizione commoventi. Sembrano indissolubilmente legati come se si stringessero in un unico abbraccio, si capiscono anche se non si guardano, si fidano ciecamente l’uno dell’altro come si conoscessero da sempre. È emozionante vederli completamente realizzati dal semplice suonare a prescindere da chi c’è di fronte. I brani scorrono con la fluidità delle acque serene anche se vengono privilegiati quelli più d’atmosfera, raccolti ed oscuri, tratti dal precedente Floating World. Così si alternano le mille suggestioni di Dokkoise House, Genessaret, le prime tre parti della suite Hanasakajijii, Kasa No Hone. L’esiguo pubblico, rapito dalle melodie che ammaliano i sensi, ascolta con curiosità e apprezza. I ragazzi sul palco, un po’ intimiditi, si scambiano continuamente strumenti tra piano, chitarra, basso, batteria, trombe, tromboni, xilofono e percussioni di ogni tipo. Ma ciò che fa davvero la differenza sono le voci. I microfoni non sono abbastanza per tutti ma lo spazio è talmente ristretto che quasi non c’è ne bisogno. Ogni voce canta la sua melodia e si intreccia alle altre in cori polifonici dagli aspetti bucolici che rivelano i misteri delle grandi foreste, rischiarati dal filtrare del raggio di sole. L’armonizzazione è perfetta e la sintonia celestiale! Ognuno fa esattamente quel che deve fare, senza esagerare, col tono giusto, senza prendere il sopravvento, con garbo, con moderazione, optando per l’amalgama. C’è anche spazio per far mostra del loro splendido pop da camera che ci aveva fatto letteralmente innamorare dell’ultimo Canopy Glow. Northern Lights e John J. Audubon ne sono la rappresentazione più efficace.
Ciò che è davvero stupefacente è la cura su ogni pezzo reso live. La capacità di adattare i brani ai luoghi, alla gente, alle atmosfere che si respirano. La location è davvero piccola ma l’acustica è ottima e questo perché ognuno suona avendo la percezione del risultato complessivo. Si suona piano, con delicatezza, l’importante è che tutto si incastri a perfezione. E si incastra. Ogni piccolo particolare tende a contribuire alla formazione di quel sound unico e sognante, il timbro di ogni strumento, dalla più piccola percussione artigianale al trombone, è valorizzato come non mai anche grazie al contesto. Molti dei brani sono riarrangiati. Mancano completamente gli archi ma nessuno ci fa caso. Se ci fossero, paradossalmente stonerebbero in una situazione del genere, rompendo la perfetta armonia creata. Ad un tratto finiscono i brani del repertorio, i bis non sono previsti. Poi accade ciò che di più bello possa esserci per un artista che porta in giro la sua musica davanti a un pubblico nuovo: iniziano ad applaudire tutti. I battiti di mani diventano sempre più scanditi ritmicamente e non accennano a stancarsi. Qualcuno (compreso il sottoscritto) prova a fare il nome di qualche brano. Gli Anathallo sorridono tra il felice e l’imbarazzato e rispondono ad ogni richiesta. Sembrano davvero dispiaciuti di non poter continuare ma i bis davvero non erano previsti. L’incitamento non accenna a smettere e, dopo una piccola riunione in conciliabolo nel bel mezzo della sala, decidono di cedere. Passa ancora qualche minuto speso per montare un nuovo pedale di effetti per la chitarra e lo show ricomincia. C’è ancora tempo per qualche altro brano ma le due splendide versioni di Italo e All the First Pages, dall’ultimo album, stupiscono davvero. Qualcuno accenna a cantare i motivetti dei ritornelli, qualcun altro si abbraccia lasciandosi dondolare sulle spensierate melodie mentre il sorriso illumina il volto di ogni componente del combo americano. Il tempo della fine poi arriva davvero. I ragazzi si disperdono tra il calore della gente e le chiacchiere. Ora sembrano normali ed è quasi impensabile che soltanto un minuto prima fossero stati capaci di imprigionarci con la loro musica nei nostri sogni. (Lost Gallery)

A S. per la condivisione.

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